AUTENTICITÀ E PROVENIENZA di Erica Freo 

 

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Nel 1997, l’ex direttore del Metropolitan Museum di New York, Thomas Hoving, dichiarò che oltre il 40% delle opere presenti nel museo fossero false. Harry Bellet, critico d’arte e autorevole firma di Le Monde, si chiese se tale cifra non fosse addirittura superiore alla realtà.

A distanza di oltre venti anni, resta invariata la scarsa trasparenza che caratterizza il mercato dell’arte, ove i molti conflitti di interessi e i pochi controlli pongono rilevanti problemi in tema di autenticità delle opere d’arte. Inoltre, non di rado accade che i critici che prima avevano, pur con professionalità e diligenza, certificato l’autenticità di un’opera, abbiano poi avuto dei ripensamenti, o, ancora, che altrettanto autorevoli critici sovvertano l’opinione fornita dai primi, ponendo di fatto un’aurea di grande incertezza riguardo l’autenticità dell’opera oggetto del loro esame.

Inoltre, oltre al ripensamento dei critici va menzionata l’ipotesi di ravvedimento da parte degli artisti stessi: nel caso che coinvolse il dipinto “Souvenir d’Italia II” di De Chirico, l’artista, contattato da un commerciante per il rilascio di un certificato di autenticità, inaspettatamente dichiarò la falsità dell’opera e ne chiede il sequestro. Nel giudizio che ne emerse, a fronte della domanda del commerciante-acquirente volta a far dichiarare il dipinto autentico o, in subordine, a ottenere il risarcimento dei danni patiti a causa della firma apposta dal De Chirico sul dipinto poi disconosciuto (per di più autenticata da un notaio e mai disconosciuta fino ad allora), la Corte di Cassazione (Cass. 4 maggio 1982, n. 2765) riconobbe la falsità dell’opera e ritenne responsabile il De Chirico per il danno patrimoniale cagionato al commerciante e provocato dalla firma apposta negligentemente su di un dipinto poi disconosciuto. Affermò la Corte, infatti, che “è responsabile per fatto illecito il pittore che, dopo aver apposto la propria firma autenticata da un notaio sul retro di un quadro senza averne diligentemente controllato la paternità, lo disconosca cagionando un danno patrimoniale al terzo acquirente il quale abbia fatto affidamento sull’autenticità dell’opera”.

Non mancano, al contrario, casi in cui un artista abbia autenticato un’opera realizzata da altro artista: è quanto avvenuto, ad esempio, nel famoso caso “Spoerri” (Cass. Civ. francese, sentenza del 5 febbraio 2002), ove l’artista fu condannato per aver apposto la propria firma su di un’opera realizzata da un ragazzo di undici anni. Interessante, peraltro, l’argomentazione dei giudici sul caso: venne, infatti, sostenuto che se fosse stato desumibile, dal certificato di autenticità rilasciato dall’artista, che l’opera fosse stata ideata da lui stesso e che solo l’esecuzione fosse stata delegata ad altri, attraverso chiare e precise indicazioni, allora la paternità non sarebbe stata messa in discussione. Poiché nel caso in esame non è stata trovata alcuna indicazione di questo tipo, la Corte concluse per la falsità dell’opera.

Questa aleatorietà diffusa nel mercato dell’arte circa l’autenticità e la provenienza delle opere comporta, come noto, evidenti risvolti negativi sul valore delle stesse, sia sul piano artistico che su quello economico. Se, infatti, di un’opera d’arte si abbia un valido certificato di autenticità e della stessa sia stato possibile seguire, con un elevato grado di certezza, la catena di passaggi di proprietà che si sono susseguiti nel corso degli anni, essa avrà un valore senz’altro superiore rispetto ad un’altra opera, pur del medesimo artista, della quale tuttavia non siano certe autenticità e provenienza. Si parla, addirittura, di un deprezzamento che può arrivare al 50% rispetto al valore che l’opera avrebbe se ne fosse documentata l’autenticità.

Il tema dell’importanza della garanzia circa l’autenticità delle opere d’arte è dunque evidente. Se, tuttavia, il mercato dell’arte è connotato da grande aleatorietà, poco sistematica e lacunosa appare anche la disciplina legislativa che lo regolamenta.

L’art. 2 della Legge Pieraccini (Legge n. 1062/1971) indicava un modello più o meno definito di certificato di autenticità, il quale doveva consistere in una copia fotografica dell’opera, con la retroscritta dichiarazione di autenticità e l’indicazione della provenienza, tutto sottoscritto dal venditore. Il Codice dei beni culturali, sostituendo tale previsione, sancisce invece semplicemente che il venditore sia tenuto “a consegnare all’acquirente la documentazione che ne attesti l’autenticità o almeno la probabile attribuzione e la provenienza delle opere medesime; ovvero, in mancanza, di rilasciare, con le modalità previste dalle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, una dichiarazione recante tutte le informazioni disponibili sull’autenticità o la probabile attribuzione e la provenienza. Tale dichiarazione, ove possibile in relazione alla natura dell’opera o dell’oggetto, è apposta su copia fotografica degli stessi” (art. 64 Codice dei beni culturali). Stante la genericità circa il tipo di documentazione che deve accompagnare l’opera, né l’art. 2 della vecchia Legge Pieraccini né la normativa di cui al Codice dei beni culturali, pur prevedendo un obbligo in capo al venditore circa la consegna di tale documentazione, indicano alcuna sanzione espressa nel caso in cui il venditore non adempia a tale obbligo.

Si osserva, ad ogni modo, che la normativa richiamata si riferisce solamente al caso in cui vi sia una compravendita di opere d’arte in cui il cedente sia un operatore professionale del mercato, restando il Legislatore assolutamente silente riguardo tutti gli altri casi di compravendita fra privati, o di cessioni avvenute ad altro titolo (ad esempio, per donazione o testamento).  

Del tutto privo di alcun riferimento normativo è, inoltre, il fondamentale tema di quali soggetti siano abilitati a rilasciare il certificato di autenticità.

Dottrina e giurisprudenza si chiedono, con particolare riferimento alle opere d’arte contemporanea, se tale certificato possa essere rilasciato solamente dal titolare del diritto di rivendicare la paternità dell’opera (l’autore stesso e, dopo la sua morte, dai suoi familiari più stretti: nello specifico, l’art. 23, Legge n. 633/1941 prevede che tale diritto possa essere fatto valere “dal coniuge e dai figli [dell’autore] e, in loro mancanza, dai genitori e dagli altri ascendenti e da discendenti diretti; mancando gli ascendenti ed i discendenti, dai fratelli e dalle sorelle e dai loro discendenti”) ovvero se, al contrario, l’autenticità possa essere certificata anche da soggetti terzi come fondazioni, gallerie d’arte e critici. Secondo l’orientamento attualmente prevalente, non essendovi alcuna indicazione legislativa espressa circa i soggetti legittimati a rilasciare un certificato di autenticità, quest’ultimo può essere rilasciato da qualunque soggetto “esperto”, ossia chiunque “sia competente e autorevole, non trattandosi di un diritto riservato in esclusiva agli eredi dell’artista – i quali non possono, quindi, attribuire o negare a terzi (ad es., critici d’arte o studiosi) la facoltà di rilasciare ‘expertises’ in merito all’autenticità dell’opera del loro congiunto” (Trib. Roma, 14 giugno 2016, n. 12029; in senso conforme, Trib. Roma, 16 febbraio 2010, n. 3425).

Secondo l’orientamento richiamato, dunque, vi è una chiara scissione tra il diritto di alcuni soggetti di rivendicare la paternità dell’opera, quale esercizio del diritto morale d’autore posto a tutela dell’artista, e il diritto di rilasciare certificati di autenticità, principalmente posto a tutela degli eventuali acquirenti o successivi proprietari delle opere d’arte.

Peraltro, l’efficacia giuridica di questi ultimi è, come esposto sopra, assai ridotta. Ciò è particolarmente evidente riguardo al tema del valore dimostrativo che gli stessi hanno in un eventuale giudizio vertente proprio sull’autenticità di un’opera d’arte: basti ricordare che l’autore stesso è ascoltato dal giudice solo in veste di semplice testimone riguardo all’autenticità della sua stessa opera, non costituendo al contrario la sua dichiarazione una prova incontestabile o comunque privilegiata (art. 9, Legge n. 1941/633).

La vera incidenza dei certificati di autenticità si manifesta, pertanto, solamente sul piano dell’attendibilità loro attribuita dal mercato, il quale finisce per essere l’unico vero “autenticatore ufficiale” delle opere d’arte, privilegiando, ovviamente, un certificato proveniente dallo stesso autore o dai suoi parenti, ovvero da un critico particolarmente autorevole.

Tuttavia, si deve ricordare che anche un’opera riconosciuta dall’artista stesso possa recare il c.d. rischio “sorpresa” ed essere, dallo stesso, disconosciuta in seguito.

 

Erica Freo

Trainee Lawyer di Loconte&Partners