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 ©2022 Jeffrey Montgomery-FCM

Si apre al Museo delle Culture di Lugano la grande mostra dedicata alla Collezione di Jeffrey Montgomery

Il MUSEC presenta al pubblico 170 opere risalenti al periodo fra il XII e il XX secolo appartenenti alla Collezione Montgomery.

Si apre al Museo delle Culture di Lugano la grande mostra dedicata alla Collezione di Jeffrey Montgomery. Da oltre cinquant’anni di casa proprio a Lugano, è una delle maggiori e più conosciute raccolte di arte giapponese al di fuori del Giappone. Con questo progetto il MUSEC celebra una passione collezionistica e un patrimonio di grande valore artistico e culturale. Un patrimonio che dà prestigio a Lugano, consolidando così gli storici legami della città ticinese con il collezionismo d’arte privato svizzero e internazionale.

Allestita sui due piani dello Spazio mostre di Villa Malpensata, sede del MUSEC, la mostra JAPAN. ARTS AND LIFE presenta al pubblico centosettanta opere risalenti al periodo fra il XII e il XX secolo - tra cui tessuti, arredi, dipinti, oggetti di culto e del quotidiano - accuratamente selezionate tra gli oltre mille oggetti raccolti nel corso di una vita da Jeffrey Montgomery. Rinomata in tutto il mondo, la Collezione Montgomery manifesta una straordinaria ricchezza e una sostanza singolarissima: è «orientale», e al contempo esprime una cultura «popolare», riletta in termini estetici elevatissimi dalla scelta elegante e raffinata del collezionista che vi ha dedicato la sua vita.

L’esperienza e la sensibilità del collezionista sono al centro del progetto elaborato dal MUSEC e ne segnano l’originalità, rispetto al modo con cui la sua collezione è stata fino ad oggi interpretata. Come scrive Francesco Paolo Campione, direttore del MUSEC, nel suo testo introduttivo al catalogo della mostra: “tutte le collezioni d’arte hanno un senso e un valore profondo soltanto se legate alla dimensione esistenziale e all’esperienza umana di chi le ha volute, progettate e concretizzate intorno a sé. Il collezionista è indispensabile alla collezione: non soltanto perché l’ha realizzata, ma perché ne assicura l’originalità, interpretando lo spirito del tempo”.

 

13. 2022 Jeffrey Montgomery FCM

©2022 Jeffrey Montgomery-FCM

 

La relazione del MUSEC con Jeffrey Montgomery è iniziata nel 2008 e si è concretizzata una prima volta nel 2010 con l’esposizione Ineffabile perfezione a Villa Ciani (Lugano), dove una quarantina di opere della sua collezione impreziosivano il percorso incentrato sulle fotografie del Giappone dipinte a mano di fine Ottocento. Da quel primo incontro fortunato si è sviluppato uno speciale vincolo di solidarietà intellettuale e umana coltivato nel corso degli anni, senza fretta, in attesa che vi fossero le condizioni per realizzare un progetto più ambizioso. Un progetto davvero innovativo, in grado di restituire al pubblico non soltanto il valore che le opere della collezione hanno rispetto alla cultura che le ha prodotte, com’è stato sino a oggi, ma anche e soprattutto il valore che esse possiedono nella visione del mondo di chi le ha collezionate per decenni, con intenso amore intellettuale. La crescita del MUSEC e il suo trasferimento nel 2017, dalla sede originaria dell’Heleneum alla più ampia e centrale Villa Malpensata consentono oggi di condividere pienamente con il pubblico i frutti del dialogo intessuto nel corso degli anni.

La bellezza della semplicità

La Collezione Montgomery è il frutto della ricerca interiore che ha accompagnato la vita di un uomo che non si considera il padrone, bensì piuttosto un keeper, il fortunato custode di un patrimonio di oggetti legati fra loro da una segreta forma di solidarietà. Le opere raccolte con infinito amore nel corso di una vita sono altrettanti strumenti per avvicinare e scoprire gli innumerevoli lati della cultura giapponese, cui Jeffrey Montgomery ha dedicato una profonda esplorazione e che ha sentito da sempre particolarmente vicina alla propria sensibilità. L’asse portante della sua visione del mondo riguarda la bellezza della semplicità, considerata alla stregua di una guida nascosta e profonda. La rarefatta raffinatezza che caratterizza determinati generi d’arte giapponese, come le pitture, i tessuti e le lacche, si coniuga in modo quasi ineffabile all’austera e, per molti versi, ruvida semplicità degli oggetti del quotidiano. Si tratta di una combinazione quasi ossimorica che è capace – sono le parole del collezionista - «di produrre capolavori che affascinano perché in grado di combinare la più profonda genuinità con il gusto dell’essenziale. Cose che, se non ti soffermi attentamente a guardarle, possono sfuggirti ma che, se sei capace di osservarle a lungo, quasi a carpirne l’essenza, generano dentro lo spettatore un’inesorabile sensazione di bellezza».

L’armonia con la natura e il rispetto della tradizione

Nelle riflessioni di Jeffrey Montgomery, la bellezza è autentica quando è ispirata alle forme della natura, perfette nella loro assoluta imperfezione. La creatività personale e l’individualità artistica non sono in cima alla scala dei valori dell’arte giapponese. Non perché si tratti di valori disprezzati, ma perché ogni genere di opere è innanzitutto il risultato della capacità dell’artista di esprimere le abilità tramandate dai suoi antenati. Abilità che affondano la loro origine nella notte dei tempi, facendo sentire l’artista parte di una storia di bellezza ininterrotta. Utilizzando un termine occidentale potremmo chiamare tale valore con il nome di «tradizione», associandovi anche il senso di una ricerca che ha insegnato all’uomo l’importanza di lavorare in armonia con la natura e nel rispetto, profondamente religioso, dei «segreti» del mestiere, per continuare a rendere, in definitiva, migliore il mondo. L’opera d’arte in tal senso esprime una materialità che, lungi dall’essere tecnica, come accade in genere nel mondo occidentale, riporta piuttosto all’idea di un’incessante trasformazione del mondo e al sentimento di insanabile nostalgia che tale trasformazione comporta.

L’impermanenza delle cose

Il punto di arrivo della passione collezionistica di Jeffrey Montgomery non può che essere di natura esistenziale. Le sue opere non generano un accumulo materiale ma restano isolate, ciascuna dotata di una propria specifica identità, come strumenti capaci di suscitare e accompagnare un vero e proprio percorso spirituale sul senso della vita. Se vi è comunanza la si rintraccia, al di là delle forme, in un valore antico e proprio della civiltà che le ha generate per cui la pace interiore passa attraverso l’accettazione del fatto che nulla è finito, che nulla è perfetto e che nulla dura.

Il percorso espositivo

Le 170 opere esposte nelle 13 sale lungo le quali si snoda l’esposizione compongono sia un percorso attraverso il mondo interiore del collezionista, sia un viaggio d’arte negli ideali estetici del Giappone, sintetizzati in precedenza.

 

 



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 Len Lye, Tusalava (1929), frame enlargement, Courtesy of the Len Lye Foundation, Stills collection: Nga Taonga Sound &Vision

Il MACTE – Museo di Arte Contemporanea di Termoli è lieto di annunciare "LE 3 ECOLOGIE"

Una riflessione sull’ecologia dal punto di vista ambientale, sociale e mentale.

La prima mostra curata dalla Direttrice del museo per le sale del MACTE è una riflessione sull’ecologia dal punto di vista ambientale, sociale e mentale attraverso le opere e le ricerche di Matilde Cassani, Piero Gilardi, Karrabing Film Collective, Len Lye, Jumana Manna, Jonatah Manno, Silvia Mariotti, Francis Offman, Francesco Simeti, Nicola Toffolini e Micha Zweifel.

Il MACTE – Museo di Arte Contemporanea di Termoli è lieto di annunciare la prima mostra curata dalla Direttrice Caterina Riva per le sale del museo, Le 3 ecologie aprirà al pubblico dal 2 febbraio al 15 maggio 2022.

Le artiste, gli artisti e i collettivi invitati alla mostra tracciano mappe eccentriche che si spingono dal Mediterraneo fino al Pacifico e all'Artico e delineano contesti ambientali ibridi, sognati, contaminati, stimolando la nostra percezione attraverso opere (film, installazioni, pittura, disegni, fotografie) messe in relazione nelle sale del MACTE.

Il titolo della mostra riprende il saggio del 1989 del filosofo francese Felix Guattari, che delinea tre ecologie: quella dell'ambiente, quella sociale e quella mentale. La mostra, pensata e posticipata a più riprese a causa della pandemia, darà spazio a opere e ricerche che si sono spesso confrontate con luoghi sia a livello estetico che sociale, e che declinano il rapporto tra natura e cultura in base a diverse coordinate geografiche. Le 3 ecologie sarà articolata in tutti gli spazi del museo e si può immaginare come un organismo nel quale coesistono persone, materiali ed idee.

 



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Raymond Depardon, Glasgow, Scozia, 1980, Serie: Glasgow ˝ Raymond Depardon/Magnum Photos. Courtesy  Elettra PRmfs

Triennale Milano e Fondation Cartier presentano in Italia la prima mostra personale del fotografo e regista francese Raymond Depardon

L’esposizione testimonia come la ricerca di Depardon esplori mondi e contesti molto diversi: dalle comunità rurali francesi alle periferie urbane di Glasgow, dalla vita nella New York degli anni Ottanta agli ospedali psichiatrici in alcune città italiane negli anni Settanta.

Triennale Milano Fondation Cartier pour l’art contemporain presentano La vita moderna, esposizione personale del fotografo e cineasta francese Raymond Depardon. Riunendo trecento fotografie e due film, La vita moderna è la più grande mostra mai realizzata dell’artista che, dagli anni Settanta, ha rinnovato profondamente il mondo dell’immagine contemporanea. Specificamente creata per Milano, la mostra rivela, attraverso molte tra le sue serie più emblematiche, quanto l’Italia abiti il suo lavoro. Sotto la Direzione Generale di Hervè Chandès la vita moderna è concepita con la complicità dell’artista Jean-Michel Alberola, nella cornice della scenografia firmata da Thèa Alberola. Condividendo la stessa visione della creazione e l’intento di trasformare lo spazio espositivo in un luogo di interrogativi sulle grandi sfide del nostro tempo, le due istituzioni hanno scelto, per la terza mostra in programma, di dedicare oltre 1300 mdi spazi espositivi all’opera di un fotografo-regista che percorre il pianeta, attraversa le città e le campagne, dà la parola ai loro abitanti e pone sul mondo uno sguardo umanista.

Alla ricerca costante della giusta distanza, Raymond Depardon va incontro ai suoi soggetti con discrezione e umiltà, costruendo con pazienza un rapporto con gli esseri o i luoghi, dando voce a coloro che non ne hanno, rivelando ogni paesaggio come il luogo di un’esperienza umana attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica o di una telecamera. Le sue prime immagini l’hanno condotto in Ciad o in Libano, dal nord al sud del continente americano, nei deserti e nei Paesi in guerra, quando il fotogiornalismo era il suo modo di percorrere il mondo e confrontarsi con il reale. Giovane reporter dell’agenzia Dalmas, nel 1966 .

Uno dei co-fondatori dell’agenzia fotografica Gamma e, una decina d’anni dopo, inizia a collaborare con Magnum, di cui è tutt’oggi uno dei membri fondatori. Presentandosi come “un passeggero del (suo) tempo”, sperimenta diversi modi di approcciare il mondo – prima la fotografia, poi la regia – ponendo l’immagine, fissa o animata, al servizio di una scrittura semplice, unica, spesso frontale. Che segua un uomo politico in campagna elettorale o un contadino nella sua quotidianità, che visiti un palazzo di giustizia o un ospedale psichiatrico, Raymond Depardon è in grado di mettersi in disparte per lasciare posto al soggetto, senza cercare l’istante decisivo e preferendo il reale al sensazionale. Questa maniera di vivere il mondo, all’inizio sperimentato attraverso il fotogiornalismo, poi, dalla fine degli anni Settanta, attraverso serie più personali, gli attribuisce un posto speciale nella storia della fotografia e del cinema.

L’esposizione La vita moderna mostra la ricchezza dell’opera di Raymond Depardon, la diversità dei suoi soggetti e la coerenza del suo percorso, attraverso otto serie fotografiche, due film e l’insieme dei libri che ha pubblicato. Prendendo in prestito il titolo dal film che, nel 2008, conclude la trilogia Profils paysans, l’esposizione conduce il visitatore in una successione di interrogativi che attraversano tutta l’opera dell’artista: quali sono i soggetti che richiamano il colore e quelli per cui si impone il bianco e nero? Come evocare, in un’immagine, le trasformazioni di un paesaggio? Qual é il posto del fotografo e qual è la giusta distanza dal soggetto? Come distaccarsi dall’evento per rivelare i margini e i bordi? Cos’è la modernità in fotografia quando si percorre una zona rurale o si attraversano le strade di una città post-industriale? Il dualismo – tra bianco e nero e colore, tra visi e paesaggi, tra terra avita e modernità – non diventa antagonismo, ma rivela l’attenzione verso il mondo, una curiosità in movimento, uno sguardo aperto sull’incontro della diversità della nostra epoca.

La prima serie dell’esposizione, Errance (1999-2000), rappresenta anche il filo conduttore dell’intero percorso, uno  spostamento verso un altrove che è già là, una continuità oltre le frontiere, una prossimità universale, una familiarità nell’alterità. Immagini di strade e passaggi, di vie e rotaie, dove il viaggio diventa vagabondaggio, danno vita a paesaggi che si astraggono volutamente da qualsiasi indicazione di una precisa localizzazione. Tra le geografie dei margini del mondo che caratterizzano l’intera opera di Raymond Depardon, l’Italia occupa un posto particolare e ricorrente.

Qui l’artista ha realizzato diverse serie, come Piemonte (2001), in cui sviluppa un’“arte di prossimità”, sottolineando la continuità geografica e culturale transalpina. Ben lungi dall’indagare le differenze, è attraverso le reminiscenze dei paesaggi francesi che percepisce quelli della regione di Torino. Come un’eco, sull’altro versante rispetto al Piemonte, i paesi dell’entroterra mediterraneo svelano le strade in acciottolato e le case dalle facciate irregolari nelle fotografie della serie Communes (2020), che offre un’immagine fuori dal tempo di queste zone del sud della Francia miracolosamente scampate a un progetto di estrazione di gas di scisto, in seguito abbandonato. Fotografo del sud, del Mediterraneo, dei deserti, dell’Africa, Raymond Depardon si dice attratto anche dal nord e dalla sua luce. Un reportage lo conduce a Glasgow (1980) dove fotografa dei bambini, piccoli re delle strade, dei senzatetto, delle risse, cogliendo, a colori, l’inoperosità di una città quasi monocroma. Lo stesso anno fotografa New York, attraversando la città, fissandola attraverso l’obiettivo della Leica che porta al collo: le inquadrature audaci delle fotografie della serie Manhattan Out (1980) evocano la solitudine urbana e l’indifferenza individualista. La città gli sfugge, gli appare “troppo forte”, impossibile da filmare, come afferma la sua voce fuori campo nel cortometraggio New York, N.Y. (1986).

Il desiderio di confrontarsi con “lo spazio pubblico”, “lo spazio del vissuto” lo catapulta in un grande progetto: fotografare la Francia, trarne un ritratto contemporaneo, con una macchina fotografica 20 x 25, frontalmente e a colori. La France (2004-2010) di Raymond Depardon è quella ordinaria e quotidiana delle “sottoprefetture”, delle piazze e dei bar, degli uffici postali e delle stazioni di servizio. Un’altra Francia si rivela con la serie Rural (1990-2018) – qui esposta per la prima volta – per la quale l’artista percorre le campagne, incontrando i contadini, raccontando la terra e gli uomini che la coltivano, sostando nel cortile di una fattoria, ritrovando quel mondo rurale che era stato uno dei suoi primi soggetti. Sottolineando la fragilità delle piccole imprese, le sue fotografie raggiungono e testimoniano una dimensione politica e ideologica. Questa cognizione si ritrova nella serie che conclude l’esposizione, San Clemente (1977-1981), per la quale, incoraggiato da Franco Basaglia – pioniere della psichiatria moderna – fotografa la vita negli ospedali psichiatrici di Trieste, Napoli, Arezzo e Venezia, realizzando così un reportage sconvolgente alla vigilia dell’adozione della Legge 180, nel 1978, destinata a rivoluzionare il sistema ospedaliero psichiatrico italiano. Il film San Clemente (1980), girato nel manicomio dell’isola veneziana poco prima della chiusura, prosegue l’esplorazione delle frontiere della follia e rivolge ai pazienti quello sguardo umanistico che caratterizza tutto il lavoro del fotografo. L’esposizione La vita moderna riunisce anche le pubblicazioni di Raymond Depardon, sottolineando l’importanza di questo aspetto della sua opera e del suo modo di ripensare eternamente il proprio percorso fotografico – il suo senso, la sua tecnica, le sue sfide – partendo da Notes (1979), che l’artista considera uno dei suoi libri fondamentali, fino a Rural e Communes pubblicati da Fondation Cartier nel 2020 e 2021.

Appositamente ideata da Raymond Depardon per Triennale Milano, La vita moderna è stata concepita con la partecipazione dell’artista Jean-Michel Alberola, che ha dato il suo ritmo al percorso e introdotto il colore negli spazi, con la scenografa Thèa Alberola. L’allestimento è scandito da grandi stampe tratte dalla serie Errance, che invitano a sperimentare il rapporto con il paesaggio e la ricerca della distanza corretta dal soggetto. Il pittore Jean-Michel Alberola esce spesso dallo spazio della tela per lasciare fuggire il colore su ampie pareti dipinte. Raymond Depardon ha riflettuto spesso, nelle sue esposizioni, al modo di mostrare i propri film e di presentare le proprie fotografie. Insieme, i due artisti trovano negli spazi di Triennale una nuova modalità di giocare con i contrasti dimensionali e creare un incontro con il visitatore.

Per info:
 
Fondazione La Triennale di Milano

+39 02 72434-1
 
 Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. | www. triennale.org
 

 



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Sissi: SACRI INDICI a LabOratorio degli Angeli, Bologna

Per la prima volta è esposta al pubblico una grande carta monumentale, un’anatomia ‘sacra’ che l’artista ha prodotto appositamente per la mostra. 

In occasione della nuova edizione di ART CITY Bologna, il LabOratorio degli Angeli presenta “Sacri Indici”, un nuovo progetto site-specific di Sissi , a cura di Leonardo Regano e realizzato in collaborazione con la Galleria d’Arte Maggiore g.a.m.

Per la prima volta è esposta al pubblico una grande carta monumentale, un’anatomia ‘sacra’ che l’artista ha prodotto appositamente per la mostra entrando in intima connessione con la peculiarità dello spazio espositivo che ospiterà il suo lavoro. L’attenzione al corpo e la ricerca sull’anatomia umana che hanno da sempre contraddistinto la pratica di Sissi, si rinnova in “Sacri Indici” nelle suggestioni dell’ex Oratorio di Santa Maria degli Angeli.

Una selezione di otto grandi opere su carta appartenenti al ciclo degli “Index”, scandiscono lo spazio espositivo dello storico laboratorio di restauro e lo mutano in un percorso che ne riattualizza la sua originaria natura di luogo adibito al culto. Questi otto corpi, nelle loro particolarità visionarie ed emotive, rivelano la dualità della loro natura, carnale e mistica. Tra di esse, il visitatore è guidato e costretto in un passaggio verso il centro della sala dove l’artista presenta il nuovo, grande, “Index” prodotto per l’occasione. Alle pareti dell’ex Oratorio, l’artista espone una selezione di lavori affini, sempre su carta ma di formato più intimo, allestiti con un ritmo pacato e regolare, in contrapposizione con la visione monumentale del centro dello spazio. La mostra “Sacri Indici” sarà anche l’occasione per esporre “Anatomia Parallele”, libro-opera che raccoglie gli studi di Sissi sul corpo, nelle cui tavole l’artista indaga con metodo scientifico la figura umana e i suoi organi interni, in una corrispondenza tra interiorità ed emotività che si è poi tradotta nelle grandi carte sciolte in mostra nel laboratorio di restauro.

Come ogni anno, le scelte espositive saranno per l’artista invitato anche un prezioso momento di confronto con il LabOratorio degli Angeli e le sue attività, che curerà la presentazione delle opere di grande formato proponendo diverse soluzioni di montaggio a seconda dei differenti supporti e delle tecniche esecutive.

Sissi è nata a Bologna nel 1977, vive e lavora tra Bologna e Londra.

La sua ricerca si articola attraverso un linguaggio che attinge tanto dal mondo scientifico quanto da quello personale e intimo. Il punto di partenza è la riflessione sul corpo, che attraverso un confronto con il modello enciclopedico reinterpreta l’anatomia come metafora dell’esistente. Partendo dalla performance, Sissi indaga la soggettività e la costruzione sociale ed emozionale del corpo in un’anatomia emotiva che vede la sperimentazione costante su diversi piani artistici: dalla performance scaturisce un segno materico che si incarna in sculture, installazioni, disegni, pitture e fotografie. L’artista rimodella e rimodula materiali, tecniche, linguaggi, significati e forme, attraverso un personale sistema di codici visivi e letterari che rinnova la lettura del nostro quotidiano in modalità tassonomica.

Sissi ha esposto le sue opere in mostre personali in Italia e all’estero, tra cui: Corpi e Processi - Storie di fili, CSAC Parma, (2020); Vestimenti, Palazzo Bentivoglio, Bologna, (2020); Motivi Ossei, Galleria d’Arte Maggiore g.a.m, Bologna (2016); Istinti-Estinti, Galleria Tiziana Di Caro, Napoli (2016); Manifesto Anatomico , MAMbo e Musei Civici d’Arte Antica – Istituzione Bologna Musei, Bologna (2015); Lezioni d’italiano, The Old Operating Theatre, London (2013); Aspiranti Aspiratori, Aike Dellarco Gallery, Shanghai (2013); Volume Interno, Fondazione Volume!, Roma (2012); Addosso, Fondazione Pomodoro, Milano (2010); Al di la’ dello sguardo la corda lega, Mizuma Gallery, Tokyo (2008); Nature, Chelsea Art Museum, New York (2006); Nidi, MACRO, Roma (2004); The Walk, W139 Amsterdam, Smak, Gent (2003); Aerea, MoCA, Miami (2001). Nel 2012 vince il Gotham Prize; nel 2006 le assegnano la borsa di studio dell’American Academy in Rome; nel 2005 si aggiudica il Premio New York del Ministero degli Affari Esteri; nel 2003 la GAM di Bologna le conferisce il Premio Alinovi; vince il Premio Furla per l’Arte nel 2002.

Nel 2008 è entrata a far parte del programma di residenze del Tokyo Wonder Site - Tokyo Metropolitan Foundation for History and Culture e nel 2004 è stata artista in residenza presso la Neue Galerie am Landesmuseum Joanneum a Graz. Fra le mostre collettive e i festival: Sublimi Anatomie, Palazzo dell’Esposizioni, Roma (2019); Biennial Vallauris, Terre d’Italia, Musee de la Ceramique, Vallauris (2020), Santarcangelo Festival, S.Arcangelo (2018); Porto Marghera100, Palazzo Ducale, Venezia (2017); Par tibi

Roma Nihil, Musei Fori Imperiali, Roma (2016); Fondazione Volume!, Musee d’Art Moderne et Contemporain; (Saint Etienne Metropole,(2015); Growing roots, Museo del Novecento, Milano (2013); Silenzi in cui le cose s’abbandonano , Museo d’Arte Contemporanea, Zagabria (2012); Patterns of Mind, Turku Biennal, Turku (2011); No soul for sale, A festival of Indipendents, Tate Modern, London (2011); Collaudi, Padiglione Italia, 53ma Biennale di Venezia (2009); Quadriennale di Roma (2008); Global Feminism, Brooklyn Museum, New York (2007); Italian Genius Now, Museo Pecci, Prato (2007); Phantom of Desire, Neue Galerie am Landesmuseum Joanneum, Graz (2003); Poeziezomer Watou, SMAK, Ghent, 2001.

Ha collaborato con aziende come Furla, per il progetto “Furla & I” e “Candybrissima Show” a cura della Fondazione Furla dal 2010 al 2013, e nel 2012 con Elica per il progetto Aspiranti Aspiratori, a cura della Fondazione Ermanno Casoli.

Il LabOratorio degli Angeli è una storica conosciuta a livello nazionale, e nasce dalla volontà di Maricetta Parlatore che nel 1982 trasferisce l’attività presso la Chiesa sconsacrata di S. M. degli Angeli e l’attiguo Oratorio. Nel 2005 viene rilevato da Camilla Roversi Monaco, diplomata all’OPD di Firenze, ora docente dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, che continua a rivestire il ruolo di direttore tecnico dell’azienda. Dal 2019 entra in società Andrea Del Bianco, chimico e restauratore, responsabile dei settori restauro carta e del contemporaneo.

Il Laboratorio degli Angeli, in possesso di attestazione S.O.A. OS2-A class. II, opera sia nell’ambito del restauro architettonico sia delle opere mobili, e si distingue per interventi su manufatti di grande formato e di arte contemporanea. Grande attenzione viene riservata alle metodologie d’intervento, nel rispetto delle peculiarità delle singole opere. Il laboratorio si occupa inoltre di conservazione programmata, di sistemi espositivi, di perizie, di condition report, di ricerca, anche tramite collaborazioni con istituzioni pubbliche e private.

 

INFO

Sissi

SACRI INDICI

A cura di Leonardo Regano

21 gennaio-6 febbraio 2022

LabOratorio degli Angeli

via degli Angeli 32, 40124 Bologna

Promossa da: LabOratorio degli Angeli

In collaborazione con: Galleria d’Arte Maggiore g.a.m.

 



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FRANCESCO DILUCA. PORTRAITS a Milano, Basilica di San Celso

Decine di esili creature in bilico tra l’umano, l’animale e il vegetale animano le navate della basilica milanese e chiamano il pubblico a essere non solo spettatore ma parte integrante della mostra.

Negli antichi spazi della Basilica di San Celso a Milano, le opere della mostra “Francesco Diluca. Portraits” sono disseminate come in una camera delle meraviglie.   
Curata da Angela Madesani, la personale presenta dal 21 gennaio al 20 febbraio 2022 un’unica grande installazione composta da circa trenta sculture antropomorfe a grandezza naturale: creature in bilico tra l’umano, l’animale e il vegetale in cui il rapporto tra uomo e natura si fa evidente.
Le opere, realizzate appositamente per l’esposizione, sono state concepite per entrare in dialogo con gli ambienti della basilica in un’ottica site-specific diventando così presenze ieratiche: sacri sono gli spazi quanto sacra è, per l’artista, la natura, vera protagonista della rassegna.
 
Decine di esili figure organiche realizzate in ferro saldato, polvere di ferro, ossidazioni di rame, ruggine e oro zecchino, tutte diverse tra loro e con tratti peculiari, animano le navate della basilica e chiamano il pubblico a essere non solo spettatore ma parte integrante della mostra.
Pur nella loro singolarità le opere sono legate da un unico fil rouge: il rapporto con la natura, intesa anche come scorrere del tempo e delle stagioni. Tutti i lavori rappresentano infatti un momento di metamorfosi, quando una fase della vita termina per dare origine a un’altra.
 
Accade nelle opere appartenenti alla serie “Radicarsi”, sculture filiformi che raffigurano la capacità della natura di rigenerarsi. L’imponente scultura che apre la mostra, ad esempio, posta all’inizio del viale d’ingresso della basilica, è un albero-uomo alla cui sommità comincia una germinazione: piccole foglie compongono quello che sarà un volto.
 
La seconda scultura del percorso è ubicata all’interno di un’anfora incastonata in una parete. L’anfora è in parte rotta e l’opera che vi è posta all’interno, come a intendere una possibilità di rigenerazione, si intitola “Respiro” ed è composta da farfalle in ferro saldato e successivamente dorato. Le opere che compongono la serie “Papillon” (farfalle, appunto) marcano sempre una fine e un nuovo inizio. O viceversa. “La farfalla – si chiede Diluca – è l’inizio della vita di un bruco o la sua fine?”
 
Sulla stessa soglia si muovono le sculture della serie “Post fata resurgo”: opere realizzate in un particolare filato metallico che può prendere fuoco. Quando la scultura brucia – atto che verrà compiuto in una performance nella serata d’inaugurazione – il filato produce una miriade di scintille lasciando intravedere parti del corpo, organi e filamenti venosi che accendono una continua reazione a catena. L’opera cambia di stato diventando fragile e dissolvendosi poco per volta. Anche in questo caso, l’artista registra un cambiamento: la fine di un momento che apre una nuova fase.
 
Sempre connesse ai temi dell’evoluzione e della rigenerazione continua sono le opere appartenenti alla serie “Kura Halos” che fanno riferimento all’immaginario e alla simbologia legati al corallo rosso. Creature metà umane e metà coralline, le opere di Diluca, esprimono quel senso di fragilità e insieme di forza – di resilienza – che si associa alle ramificazioni marine.
 
Completa l’esperienza “fisica” della mostra, un’esperienza virtuale immersiva che sfrutta la tecnologia delle riprese a 360° rendendo la rassegna fruibile anche per chi non potrà recarvisi in presenza.
L’esposizione è accompagnata da un catalogo edito da Eclypse edizioniArte con un testo critico di Angela Madesani, corredato dalle foto delle installazioni e da apparati bio-bibliografici aggiornati.