Capogrossi, Superficie 710, 1954
ALFABETO SEGNICO Sergi Barnils, Giuseppe Capogrossi, Achille Perilli, Joan Hernández Pijuan
Un progetto espositivo per rintracciare le strutture testuali che si nascondono all’interno dell’immagine, dalla fine degli anni ‘50 a oggi.
Una mostra che coinvolge Italia e Spagna con quattro artisti di generazioni differenti impegnati nella ricerca di un segno primario. Sergi Barnils, Giuseppe Capogrossi, Achille Perilli e Joan Hernández Pijuan sono i protagonisti di Alfabeto segnico, la mostra a cura di Alberto Fiz che si tiene – dopo la tappa milanese – al CAMeC Centro Arte Moderna e Contemporanea della Spezia.
Alfabeto segnico è una rassegna che ha lo scopo di rintracciare le strutture testuali che si celano all’interno dell’immagine in base a un percorso che parte dal 1950 per arrivare sino a oggi. Non scrittura, ma una forma-segno che si pone come atto creativo superando il dato appartenente alla realtà sensibile. Capogrossi e Barnils, Perilli e Pijuan, pur nelle differenze dei loro percorsi stilistici, sono legati da un sottile filo rosso evidenziato dall’aggregazione costante degli elementi in una continua rivitalizzazione del segno archetipale che determina un progressivo allargamento dello spazio dipinto.
«Proprio in una società altamente tecnologica l’alfabeto segnico non è mai stato così attuale», afferma il curatore Alberto Fiz. «Loghi, simboli, codici ed emoticon sono entrati nella nostra vita quotidiana come se fosse necessaria una semplificazione del messaggio, recuperando la dimensione emozionale in base a una consapevolezza trasmessa dai maestri dell’astratto-informale e riproposta oggi con determinazione e persino con ironia».
Sono più di 40 le opere esposte provenienti da collezioni pubbliche e private. Sono stati coinvolti il MaRT di Rovereto, le Gallerie d’Italia – Piazza Scala (sede museale di Intesa Sanpaolo a Milano) e il Museo d’Arte Contemporanea di Lissone. Sono molte le testimonianze fondamentali presenti in mostra, tra cui: Emploi du temps (1959) di Perilli che, con quest’opera emblematica, vinse il Premio Lissone; Superficie 678 – Cartagine (1950) di Giuseppe Capogrossi; sempre di Capogrossi, Superficie 399 (1961), che appartiene alla collezione VAF di Volker Feierabend.
La mostra vuole essere l’occasione per indagare un processo linguistico in continua evoluzione che sviluppa, nel tempo, una serie di varianti e combinazioni riscontrabili nelle opere di Sergi Barnils e Joan Hernández Pijuan, due artisti che hanno saputo reinterpretare la lezione dell’immediato dopoguerra rinnovando la dimensione germinale e primaria di un immaginario libero da condizionamenti ideologici. Le trame irregolari di Pijuan, che evocano i percorsi di un paesaggio scavato nella materia pittorica, sono accostabili ai graffiti di Perilli, intesi come mappe segrete. Barnils, invece, affolla la superficie di un segno miniaturizzato (basti pensare a Del verger celeste, il dittico di quattro metri datato 2015) che si ripeta in un mantra liberatorio in cui la pittura contiene emozioni, ironia e un’infinità di combinazioni imprevedibili. Pur partendo da presupposti differenti rispetto a Capogrossi, non c’è dubbio che si ritrovi in entrambi la tensione verso un’ars combinatoria che conduce verso “la proliferante molteplicità di ciò che ci circonda, imponendo la riorganizzazione spaziale con l’uso sapiente di un segno che assume significato e valore universale”, come ricorda il nipote dell’artista Gugliemo Capogrossi.
Il catalogo, in italiano e inglese, è pubblicato da Silvana Editoriale. Insieme a un saggio di Alberto Fiz, contiene testimonianze critiche su ciascun artista e preziosi materiali storici messi a disposizione dalla Fondazione Archivio Capogrossi e dall’Archivio Achille Perilli.