"Astratto" di Luca Pignatelli a Lugano
Intervista all'artista in esposizione al MUSEC di Lugano fino al 12 maggio 2024.
By Camilla Delpero
La tua arte.
Il tema del vuoto nella mia opera è lo stesso che troviamo nella musica con le pause. In ogni disciplina c’è un pieno e un vuoto e quest'ultimo è più importante dello scritto. Non ponendo alcuna distanza o differenziazione precisa, mi interessa il lavoro che rispecchia la mia identità.
L’esposizione “Astratto” al MUSEC di Lugano inizia con una stanza piena di parole, 61 per l’esattezza, una per ogni anno della tua vita. Lo scrivere a macchina è come un mantra, un esercizio spirituale per te?
Non saprei bene, devo dire che la mia routine è diventata un mantra. La ripetizione implica una sottile ritualità. È necessario cercare di distaccarsi da altre influenze. L’influenza dell’astratto è precedente ai miei lavori della fine degli anni ’80. All'epoca riempivo grandi fogli con dei segni, creavo una composizione che avesse a che fare con la costruzione di un linguaggio. La scrittura delle 61 parole, sui muri della prima sala espositiva, è stata un’idea del curatore Francesco Paolo Campione; le parole servono ad accogliere lo spettatore, a introdurlo nel mio mondo. Esse permettono di formulare una prospettiva differente su tutta la mostra. Il quadro non figurativo porta l’attenzione del fruitore verso qualcosa di meno chiaro. Di fronte a un territorio sconosciuto cerchiamo di creare un contesto e solo ad un certo punto puoi definire e cercare di amare l'opera stessa. Alcuni quadri restano a metà, altri finiscono oppure diventano un altro lavoro. Dentro le opere si intravedono diverse atmosfere; è importante arrivare verso un'origine delle forme e soprattutto staccare la spina da tutto ciò che appartiene al contemporaneo. Sgancio gli ormeggi e fluttuo verso luoghi ignoti.
Quale rapporto hai con la tua opera?
Il rapporto con le mie opere non è quasi mai pacifico, direi conflittuale. Ho costruito una metodologia che è opposta a quella del pittore da cavalletto. Joan Mirò iniziava una tela e la finiva poco dopo; Picasso invece dipingeva cercando di consumare l’idea all’istante. Non posso sopportare l’incombenza di dover per forza esaurire un quadro, di doverlo vedere finito. Preferisco lasciare tutte le mie opere non finite; con questo concetto entriamo in uno dei principi esistenziali della mia vita e della mia poetica, ossia nella tematica del “non-finito”. Lascio molte cose in sospeso in modo che tutte possano rimanere all’inizio. I miei lavori non nascono da un senso tardo-romantico di genio e sregolatezza o di impulsività, ma raggiungo i miei obiettivi con calma. La mia è un’operazione costruttiva, tuttavia ci sono dei fattori che tolgono questa forza creando così una situazione dispersiva. Nel mio lavoro cerco di unire entrambe le forze: quella costruttiva e quella distruttiva, il risultato finale è molto fluido.
Quanti sguardi può avere la tua mostra? Come possiamo guardarla?
Tutto dipende da molte condizioni, dall’empatia, da una certa spiritualità e curiosità. Quello che mi interessa è l’attrazione per via dell’interesse. Quando seleziono e scelgo qualcosa, quel qualcosa viene selezionato perché mi appartiene nel profondo; perché mi incuriosisce e per cui provo un’empatia. L’opera deve esercitare questa importante valenza, ti deve chiamare. Se c’è un attrazione che sia di rifiuto o di interesse si sta creando un punto centrale nella propria vita.
Architettura dell'io, 2021-2022 Ph. Marco Davolio.
Come mai c’è questa uniformità dei colori? Ci parli del colore nella tua opera?
L’uniformità del colore nella mia opera è dovuta al rapporto delle opere con la luce del sole che tende a divorare e sottrarre colore. Qui il colore è quello della terra, delle rocce. Mi affascina questa operazione di sottrazione che porta alla nudità della materia. La materia riesce a contenere in sé milioni di colori e cromatismi differenti da cui può emergere la composizione.
Cos’è l’arte contemporanea?
L’arte contemporanea è l’arte che appartiene all’artista nel momento in cui lui è vivo.
Cos’è il quid?
È “il non poterne fare a meno”. Il poeta può essere disperato, ma non può far ameno di scrivere i suoi versi su un pezzetto di cartone; il pittore non può fare a meno di dipingere il quadro; l’intellettuale non può fare a meno di esprimere il suo pensiero politico o etico sulle posizioni del mondo. Ogni cosa è un “non poterne fare a meno”.
In un mondo dominato dall’apparenza, definito da una forma prestabilita che a volte si pretende e da cui altre volte si sfugge. Come vedi il concetto di apparenza e di apparire contestualizzato al tuo vissuto e nelle tue opere? C’è un’apparenza o una sostanza nel tuo lavoro.
Mi piace vedere nell’arte contemporanea sempre qualcosa di nuovo, non sono trascinato dall’apparenza di dover costruire la fenomenologia di successo, di valori di mercato, che non mi interessano. Più dell’apparenza delle opere patinate e lucide, mi colpisce il lavoro di un artista che sveli una realtà nuova con un punto di vista nuovo.
Parete ipogea, 2019. Dittico. Ph. Michele Sereni.
Il tuo rapporto con la musica? La musica ti dà una forma di ispirazione sottoforma di impulsi o no? La musica e la pittura si compenetrano nel tuo lavoro o sono due mondi separati?
Cerco di mantenerli come due luoghi separati, ma alla fine si interfacciano. Amo la musica jazz; ho attraversato, da autodidatta, la storia della musica con un unico strumento che è la tromba sebbene io non sappia leggere la musica. Ho sempre amato la capacità di alcuni trombettisti di trasferire in una frazione di secondo la flessibilità delle scale musicali. Con soli tre tasti il musicista spinge l’anima, sottoforma di suono, fuori dalla campana della tromba, questo è un risultato incredibile.
Cos’è la bellezza?
La bellezza non si riesce a definire, però è uno star bene con quello che si ha difronte a sé stessi e sentire lo sprigionamento di una forza misteriosa che ti lascia impressa una figura.