L'assidua ricerca per il materializzarsi di un concetto. L'arte di curare l'arte
Ritratto Vivien Greene: Ph. David Heald
Incontro con Vivien Greene, curatrice del Guggenheim di New York.
By Camilla Delpero
Come sceglie il prossimo progetto curatoriale?
Normalmente quando si lavora su una mostra nascono altre possibilità di ricerca e altri progetti curatoriali; magari si crea un legame con un argomento affine che si può approfondire successivamente. Altre volte invece si sceglie di lavorare su artisti che fanno parte della collezione del museo Guggenheim. La prossima mostra che curerò è un progetto sull’Orfismo che ho proposto a una mia collega esperta di Kandinskij e delle avanguardie degli anni ‘10 e ‘20. Dal momento che sono esperta dell’arte del XIX e inizi XX secolo, sarà un bel dialogo che abbraccerà periodi e temi differenti. L’Orfismo è poco studiato e mi piace molto guardare le avanguardie o le mostre che ancora non sono state proposte. Sull’Orfismo non c’è stata ancora una mostra perché le pubblicazioni scarseggiano e perché è stato un movimento molto breve. “Orfismo” è un termine inventato da Apollinaire; assieme alla mia collega vogliamo tornare su questo momento e ricercare chi si può definire artista dell’Orfismo per lo stile, o per la tecnica. Bisogna allargare la definizione di Apollinaire: ci sono artisti che non si rinchiudono in una determinata corrente, non sono cubisti, non sono futuristi, e l’Orfismo può essere il termine che viene dato a questa simultaneità da loro praticata.. È interessante la scoperta di contesti che mettano in rilievo artisti che non abbiamo mai pensato; ad esempio anche Chagall ha avuto un momento orfista, Severini dopo che lascia il futurismo ha questo momento astratto. Questo è quello che vogliamo ricercare: unire figure che non penseremmo di accostare, ma che invece dialogano perfettamente.
Ci parli brevemente del progetto legato alla mostra sul Simbolismo mistico che ha curato prima al Guggenheim di New York e poi a Venezia. Perché è nato?
Sono sempre stata interessata al Simbolismo, ma organizzarla è stato difficile perché è un movimento che viene interpretato diversamente nei vari paesi. Volevo un quadro generale su cui poter mettere una lente di ingrandimento sul movimento nella definizione più stretta e il tema del Salon, essendo più internazionale, si prestava bene. Un’altra motivazione importante, per cui è stato deciso di realizzarla, è perché molti artisti della Collezione Guggenheim sono stati attratti dal Simbolismo che, particolarmente negli Stati Uniti, non viene considerato come un punto di partenza. Per esempio Kandinskij o Mondrian hanno guardato i Simbolisti. Anche i surrealisti hanno guardato al Simbolismo. Si narra quindi una storia che spesso viene dimenticata. È sempre un piacere scoprire o riscoprire artisti, e vedere opere non conosciute.
Le differenze che lei vede tra la realtà artistica del Guggenheim di Venezia e quello di New York e /o Bilbao? Siamo curiosi di conoscere come una stessa realtà cambi in base al luogo in cui è situata.
Certo, ogni museo è differente già dal punto di vista dello spazio. Siamo conosciuti per questi spazi particolari, molte differenze iniziano nell’architettura, notiamo quelle moderne di Bilbao, rispetto a quella settecentesca del Palazzo di Venezia. Il contesto influenza su come presentare l’arte. Se ci sono gallerie e spazi enormi l’arte all’interno varia. Noi ci consideriamo come una costellazione siamo legati, ma ognuno definisce i propri progetti e la sua identità. Alcune mostre si possono scambiare, se il soggetto è interessante, ad esempio ogni sede ha un occhio di riguardo per il proprio contesto. Ad esempio Bilbao ha un programma di artisti baschi, come a Venezia ci sono molte mostre su artisti italiani. Potrebbe essere interessante fare una volta uno scambio di progetti, ma non credo che sia sempre fattibile. C’è sempre un interesse maggiore verso il proprio ambiente che influenza le scelte.
Ph. Matteo de Fina.
Quanto lavoro c’è dietro una mostra, quanto tempo e quanta ricerca comporta un progetto?
Dipende dal contenuto e dal numero di opere che richiede un progetto. Con la mostra sul Simbolismo mistico ad esempio, essendo un soggetto poco ricercato, ci sono stati due anni di ricerca di articoli degli anni 1890, recensioni negli archivi, nei musei regionali e la visione delle opere in deposito. È la prima volta che un museo ha presentato un’esposizione sui Salon de la Rose+Croix. C’è stata una mole di lavoro consistente per arrivare ad esporre le 40 opere ora visibili.
Che importanza ha il curatore? Oltre ad organizzare una mostra e scegliere il percorso espositivo, qual è il fattore non ordinario che lo rende quasi esposto quanto l’artista?
È un insieme di cose, un fattore difficile da definire, è “l’occhio del curatore”. Non so se si può imparare ad averne uno, ma influisce su come vengono esposte le opere negli spazi, sulle scelta dell’allestimento, come viene spiegata la mostra. Da una parte voglio che siano le opere a parlare, dall’altro per soggetti meno conosciuti, quelli che spesso sono oggetto della mia ricerca, è necessario accompagnare l’esposizione con un elemento di didattica per far capire i concetti che ne stanno alla base. Il pubblico deve poter comprendere e apprezzare tutto. Un lavoro educativo è anche uno dei compiti del curatore. Bisogna spiegare la parte scientifica, di ricerca di un progetto espositivo in modo che possano capirlo anche i non esperti del settore.
Robert Delaunay “Windows Open Simultaneously 1st Part, 3rd Motif”, 1912.
Esiste una poetica per ogni epoca? A cosa stiamo andando incontro?
Penso che essendo ancora in un’ottica globale, spesso quando si vede una mostra o un’opera di un artista non sempre sia definibile come europea o americana, ci sono molte contaminazioni. Dipende dalle figure che si osservano, secondo me c’è una coscienza più universale e meno nazionale.
E nel periodo in cui lei è esperta la poetica si potrebbe riassumere?
Siamo nel mondo dell’Occidente e si assiste alla fine del secolo, l’inizio del nuovo, contornato da molte problematiche. Siamo in un momento sociale difficile, la modernità porta cose positive, ma anche una parte negativa. Il progresso, l’industrializzazione, è una dialettica complicata ecco perché è un periodo molto ricco culturalmente, perché le persone sensibili hanno reagito e testimoniato contro tutto questo.
Perché si è specializzata nell’arte europea tra la fine del XIX e XX secolo? Che cosa l’ha affascinata e continua ad affascinarla?
Perché è un momento dove non c’è un solo fenomeno. Non c’è solo l’Espressionismo o l’Impressionismo, ci sono vari linguaggi che accompagnano la nascita del XX sec. Nel tardo ‘800 con la fine del secolo e l’inizio del nuovo nascono delle ansietà. È un momento di transizione, noi siamo ancora in un momento simile anche se abbiamo già passato gli inizi del XXI sec. È vero che ci sono dei parallelismi tra passato e presente e che la storia si ripete.
Qual è il ruolo del museo?
Il museo ha parecchie funzioni come la valutazione del patrimonio, del potere artistico. La nostra responsabilità è la salvaguardia delle opere, la loro conservazione perché durino per molte generazioni. Come dicevo prima, siamo un’Istituzione filantropica, siamo un centro di ricerca e un centro educativo su ogni tipo di arte e siamo un punto di incontro. Ci sono performance, conferenze, musica, siamo un locus dove molte forme di arte si incontrano. Le diverse forme d’arte non sono solo le opere appese alle pareti.
Il museo rende sacra un’opera d’arte?
Parto dalla teoria che l’arte è sacra anche se non esposta. Il quadro è sacro quando ha un valore affettivo per un pubblico o per uno spettatore. Chi lavora in un museo non può avere a che fare con il mercato.
Un artista a cui è affezionata, cioè la cui arte la coinvolge maggiormente?
L’artista che mi piace e che per me è importantissimo, fuori dal mio periodo di studio, è Caravaggio. Ogni volta che vado a Roma giro per le chiese dove ci sono le sue opere. C’è sempre da scoprire qualcosa di nuovo. Caravaggio è un pittore straordinario che mi tocca in modo particolare.
La rivista, che si chiama Quid Magazine, vuole indagare il quid delle cose. Dove intravede il quid in un progetto espositivo, cosa lo rende davvero unico?
Credo ci si possa ricollegare alla questione dell’occhio del curatore, quella capacità a volte inspiegabile di saper creare una mostra. Tuttavia ci sono progetti che ho pensato e non ho mai realizzato perché lo spazio non era adatto o i pezzi più importanti che non si potevano avere: ci vuole un’unione tra il concetto, le opere, l’allestimento e la parte scientifica. L’insieme di tutti questi elementi fa accendere quella scintilla di unicità che non è legata a un solo fattore.
Cos’è la qualità al di fuori della bellezza?
Il concetto filosofico dell’artista è quello che riflette un’opera d’arte nel contesto in cui è stata prodotta. Nella mostra sul Simbolismo ci sono artisti che erano anche anarchici e riescono ad essere anche spirituali nello stesso tempo. Questo dà una forza all’opera notevole. Un’opera può essere dipinta bene, ma non può essere di qualità se è priva di concetto.
Ph. Matteo de Fina.
Progetti imminenti a cui sta lavorando?
In questo momento sto finendo di scrivere un testo su un Edouard Manet della Collezione Guggenheim. È uno degli artisti più antichi della collezione, in quanto si concentra maggiormente sull’arte del XX secolo. Lo abbiamo restaurato ed è nata una collaborazione con una nostra bravissima restauratrice, che ha impiegato due anni di ricerca per capire che cosa era stato fatto al quadro, perché era stata aggiunta della vernice ecc. Ora il restauro è quasi finito e insieme stiamo collaborando al testo per raccontare questa storia.
"Senior Painting's Conservator, Gillian McMillan working on Edouard Manet, Woman in Striped Dress (Woman [Femme]), 1877-80". Thannhauser Collection, Gift, Justin K. Thannhauser 78.2514.28, Solom R. Guggenheim Museum.
Un consiglio a chi decide di intraprendere la sua carriera?
Oggi è ancora più difficile di quando ho intrapreso la mia carriera. Direi che per chi vuole occuparsi di arte storica, non contemporanea, è necessario fare un dottorato, bisogna sapere più di una lingua, almeno l’inglese, leggerlo bene, in quanto ci sono molte pubblicazioni e convegni in lingua. Successivamente è importante fare uno stage in un museo, io ne ho fatti tre mentre ero all’università, perché inizi a formarti e ad applicare quello che studi.