USUCAPIONE DI OPERE D’ARTE: QUANDO IL POSSESSO È CLANDESTINO? di Biancamaria Campasso

 

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Il mercato dell’arte è caratterizzato da dinamiche complesse ed è costituito da operatori privati e istituzionali portatori di interessi contrapposti.

Nell’ambito di tale sistema non esiste una normativa specifica che disciplina la compravendita e la circolazione di opere d’arte, salvo che queste siano assoggettate al regime previsto dal D.lgs. 42/2004 (Codice dei beni culturali) poiché connotate da un interesse storico o artistico.

In tutti gli altri casi, occorre fare riferimento – a seconda della fattispecie presa in considerazione – alla disciplina generale dettata dal codice civile (artt. 1470 - 1526 c.c.) ovvero alla normativa prevista dal D.lgs. 206/2005 (Codice del Consumo) nel caso in cui una delle due parti del rapporto giuridico sia un consumatore.

Nell’ambito della disciplina civilistica – qui oggetto di interesse – occorre richiamare le regole previste in via generale per gli acquisti a titolo originario, interrogandosi sulla loro compatibilità con il sistema dell’arte; esso, infatti, è caratterizzato da profili che lo rendono del tutto diverso dagli altri mercati.

L’imprescindibile fondamento creativo, l’opacità della sua struttura, l’assenza di un’autorità di vigilanza, il carattere globale dello stesso e la diversità di professionisti che lo compongono, lo rendono, infatti, un mercato a sé stante, mosso da proprie regole non scritte e connotato dall’intenzione di non essere imbrigliato in taluni rigidi formalismi del diritto civile.

Proprio per questi motivi, la dottrina si è dapprima domandata se fosse possibile applicare alla commercializzazione delle opere artistiche la regola civilistica del “possesso vale titolo”, prevista dall’art. 1153 c.c., relativamente agli acquisti di beni mobili a non domino.

In particolare, in forza della sopra citata disposizione, colui che compra un bene mobile non registrato da parte di chi non ne è proprietario, acquisita la titolarità del diritto di proprietà sul bene stesso “mediante il possesso, purché sia in buona fede al momento della consegna e sussista un titolo idoneo al trasferimento della proprietà”.

In sostanza, le tre condizioni necessarie affinché possa perfezionarsi l’acquisto di un bene mobile, ai sensi dell’art. 1153 c.c., sono la sussistenza di un titolo astrattamente idoneo a trasferire la titolarità del bene (come, ad esempio, un contratto), il possesso e la buona fede al momento della consegna della res.

La buona fede integrante l’elemento soggettivo è ben descritta dall’art. 1147 c.c.; essa consiste nell’ignoranza di ledere un diritto altrui (buona fede soggettiva) ed è presunta ai sensi del terzo comma del medesimo articolo.

Ebbene, se da un lato la suddetta norma rappresenta la regola nella prassi degli acquisti di beni mobili, dall’altro versante essa diventa l’eccezione nel mercato dell’arte.

Quest’ultimo, infatti, è sovente caratterizzato dalla circolazione di opere mediante passaggi di legittimazione tra gallerie, collezionisti e mercanti d’arte sulla base di una stretta di mano o, comunque, in assenza di una documentazione comprovante il diritto di proprietà sulle opere stesse.

Pertanto, stante la mancanza di un titolo astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà, per il possessore di un’opera d’arte diventa difficile - se non impossibile - provare la titolarità del suo diritto di proprietà (si parla, infatti, di probatio diabolica), specialmente in un giudizio di rivendicazione proposto nei suoi confronti.

Nell’ambito del sistema arte, assume, quindi, fondamentale importanza, considerare altri istituti che consentono di provare la titolarità di un diritto reale su un’opera d’arte, quale – ad esempio –l’usucapione, regolata dagli artt. 1158 ss. c.c..

Tale istituto rappresenta un modo di acquisto della proprietà a titolo originario; il diritto acquistato in forza di esso è del tutto nuovo e diverso rispetto al diritto appartenente al precedente titolare.

Nell’ambito dei beni mobili non registrati l’usucapione è espressamente prevista dall’art. 1161 c.c., il cui ambito di applicazione ricomprende anche l’eventualità in cui l’acquisto sia avvenuto a non domino, in forza di un titolo invalido o putativo; tale ultima ipotesi ricorre nel caso in cui un soggetto crede, in buona fede, che ricorra una determinata situazione giuridica, ma la stessa in realtà è insussistente poiché affetta da nullità.

I requisiti necessari ai fini dell’acquisto per usucapione sono il possesso che, ai sensi dell’art. 1140 c.c., è integrato dalla situazione di fatto in cui viene a trovarsi colui che dispone materialmente della res (corpus possidendi) e nel contempo si comporta come se ne fosse proprietario (animus possidendi), nonché il decorso di un determinato periodo di tempo che varia a seconda dell’elemento soggettivo.

In particolare, con riferimento all’usucapione dei beni mobili non registrati, l’art. 1161 c.c. prevede che il tempo per usucapire il bene è pari a 10 anni se il possesso è stato acquistato in buona fede, mentre è necessario il decorso di 20 anni se sussiste la mala fede del possessore.

La buona fede è qui intesa in senso soggettivo, quale ignoranza di ledere un diritto altrui ex art. 1147 c.c. e, a differenza di quanto richiesto dall’art. 1153 c.c. sopra descritto, non è un requisito necessario del possesso ai fini dell'usucapione, bensì rileva solo ai fini del tempo utile ad usucapire il bene (come confermato da Cass. civ. n. 10230/2002).

La previsione di cui all’art. 1161 c.c. deve essere poi integrata dall’art 1163 c.c. secondo cui “il possesso acquistato in modo violento o clandestino non giova per l'usucapione se non dal momento in cui la violenza o la clandestinità è cessata”.

Con riferimento a tale ultima disposizione, la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16059, depositata in data 14 giugno 2019, ha suscitato alcune perplessità tra gli operatori del mercato dell’arte, giacché la Corte ha stabilito che per aversi “possesso non clandestino”, il possessore deve fornire la prova (diabolica) che l’opera sia stata visibile a tutti tramite la sua esposizione in mostre, musei o pubblicazioni.

Nel caso di specie, infatti, la giurisprudenza di legittimità non ha ritenuto sufficiente, al fine di integrare il possesso ad usucapionem, che l’opera in esame fosse stata esposta nella scala di un palazzo adibito a residenza familiare, il cui atrio costituiva anche la reception dell’azienda farmaceutica di proprietà della famiglia medesima.

La Corte, infatti, richiamando alcune pronunce risalenti, ha statuito che, per integrare il possesso utile ad usucapire il bene, il requisito della non clandestinità deve essere riferito “non agli espedienti che il possessore potrebbe attuare per apparire proprietario, ma al fatto che il possesso sia stato acquistato ed esercitato pubblicamente, cioè in modo visibile a tutti o almeno ad un’apprezzabile e indistinta generalità di soggetti” (Cass. civ. n. 16059/2019). Pertanto, non è sufficiente, ai fini del perfezionamento dell’usucapione, la circostanza che l’opera in questione sia stata visionata unicamente dal possessore o da una ristretta cerchia di persone, in forza del proprio specifico rapporto con quest’ultimo.

A fronte di tale conclusione, la suddetta pronuncia è stata criticata da alcuni professionisti, poiché la stessa rende alquanto gravosa la prova del perfezionamento dell’usucapione.

Molti collezionisti, infatti, per questioni di riservatezza o per timore di subire furti o rapine, sono restii ad esporre pubblicamente le loro opere d’arte, ma non per questo motivo il possesso esercitato su di esse deve essere considerato clandestino e, quindi, inidoneo a perfezionare l’usucapione.

Il principio di diritto espresso dalla sentenza sembra, altresì, porsi in contrasto con quanto statuito da un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui la “continuità del possesso va posta in relazione all'utilizzazione del bene che ne forma l'oggetto: così che l'intermittenza degli atti di godimento, quando rivesta il carattere di normalità in relazione a detto impiego, non esclude di per sé la persistenza del potere di fatto sulla cosa” (Cass. civ. n. 3081/1998; in senso conforme, Cass. civ. n. 1201/1982).

Tale ragionamento, se traslato nel mercato dell’arte, consente di ritenere giustificata, anche sulla base di un giudizio di normalità, l’intenzione del collezionista di godere dell’opera privatamente, senza che possa dubitarsi della continuità e, quindi, della non clandestinità del suo possesso.

In conclusione, non pare condivisibile il principio espresso dalla Suprema Corte di Cassazione giacché occorre coniugare la necessità di rispettare i requisiti richiesti per il perfezionamento dell’usucapione, ai sensi degli artt. 1161 e 1163 c.c., con la peculiarità e complessità del mercato dall’arte, nell’ottica di rendere meno difficoltosa - per taluni players del sistema che operano privatamente - la prova della titolarità delle opere da loro possedute.

 

Biancamaria Campasso

Associate di Loconte & Partners