"Dirigo un processo di condivisione dell’arte che è molto complesso, ma è estremamente importante a garantire visibilità all’arte italiana negli USA." Intervista al Direttore de Magazzino Italian Art Foundation Vittorio Calabrese.
By Camilla Delpero
Come nasce Vittorio Calabrese e come approda a Magazzino?
Nasce in alta Irpinia, in un paese terremotato, da un contesto di ricostruzione e di sogni. Arriva con i suoi studi prima a Milano, poi a New York più di 10 anni fa, con il desiderio di lavorare in un'istituzione culturale. Approdo nella Grande Mela con un’idea chiara: definire quali sono le frontiere che, nel nuovo secolo, possano essere rilevanti per un’istituzione culturale. Con tante idee e desiderio di innovazione vivo il mio sogno americano. Ho iniziato a lavorare per varie organizzazioni culturali legate alle arti visive. Ho fatto la gavetta nelle case d’aste, nelle gallerie, lavoravo con artisti italiani, aiutandoli a connettersi con il tessuto newyorkese. La mia attuale posizione di direttore al Magazzino Italian Art nasce grazie all’artista Francesco Arena, vincitore del “Premio New York”, indetto dall’Istituto di Cultura Italiano a New York e dalla Italian Academy for Advanced Studies della Columbia University. Consiste in una residenza di quattro mesi presso l’International Studio & Curatorial Program di Brooklyn (ISCP). Francesco, all’epoca, assieme ad altri quattro artisti, rappresentava il Padiglione Italia, curato da Pietro Marchi alla Biennale di Venezia; grazie a lui ho conosciuto Nancy Olnick e Giorgio Spanu, fondatori del Magazzino Italian Art che avevano commissionato a Francesco un’opera site specific per il loro parco a Garrison, NY nell’ambito dell’Olnick Spanu Art Program. Il caso ha voluto che cercassero una figura giovane, orientata all’innovazione, e che soprattutto condividesse la visione ed il sogno di creare un‘istituzione in cui l’artista ne fosse al centro, un luogo in cui l’arte fosse vita, per citare il motto dell’arte povera.
Magazzino Italian Art. Photo by Javier Callejas. Courtesy Magazzino Italian Art.
Non ti occupi più di creare quella liaison tra artisti italiani e New York?
Continuo a creare queste connessioni con altissime potenzialità grazie alla struttura de Magazzino Italian Art. La nostra prima mostra temporanea, il progetto nato durante la pandemia, si chiama “Homemade” e raccoglie artisti italiani a New York. Nella mia ricerca, fra le mie priorità, c’è anche la comunità di italiani che, anche se perfettamente integrati, si trovano sostanzialmente in una terra di mezzo; quindi, abbiamo voluto fare qualcosa con loro in un momento così fragile.
Quali sono le soddisfazioni e le difficoltà del tuo ruolo?
Magazzino Italian Art è nato su delle fondamenta molto solide. Il nostro incontro è stato casuale, ma l’idea di questi due grandi collezionisti e filantropi era chiara fino dall’inizio e ho cercato di interpretarla e di garantire i loro forti valori al meglio. Una di queste è l’approccio alla comunità. Per esempio, il primo messaggio forte è stato quello di invitare tutta la comunità locale, addirittura prima di quella artistica, a partecipare alle celebrazioni per l’apertura del nostro spazio espositivo nel 2017. Ad oggi abbiamo un rapporto eccellente con l’ecosistema culturale che ci circonda oltre ad accogliere moltissimi visitatori residenti nella zona. La grande sfida da un punto di vista professionale è interpretare le potenzialità di progetto che non si era ancora formalizzato. Magazzino Italian Art è nato come una start-up, con grandi picchi di innovazione e grande energia. Ora, dopo cinque anni, dopo questo momento di enorme creatività, abbiamo declinato quella che è la nostra identità. All’inizio c’è stata l’energia della novità e ora dobbiamo incanalarla verso la sostenibilità. Un’ulteriore sfida che abbiamo vinto è stata quella di diventare una sorta di mediatore culturale, dal momento che lavoriamo molto con il contesto culturale italiano, tra gli Stati Uniti e l’Italia. Magazzino Italian Art è un museo americano che ha professionalità locali, ma che si interfaccia costantemente con un mondo professionale italiano dalle mille sfaccettature: il modo di guardare la cultura, di fare l’arte, di lavorare con gli artisti ha dei connotati diversi. Il risultato e il riscontro più soddisfacente sono quelli che si ottengono con gli artisti contemporanei che si confrontano con un contesto nuovo in maniera produttiva e con gli storici dell’arte statunitensi che grazie a noi hanno accesso a nuovi network in Italia. Il museo è un luogo per la comunità. Noi realizziamo questo obiettivo partendo da una collezione privata, da un progetto filantropico vero e proprio, dai nostri fondatori e pian piano ci stiamo avvicinando ad essere sempre più una realtà pubblica con uno scopo comunitario. Dirigo un processo di condivisione dell’arte che è molto complesso, ma è estremamente importante a garantire visibilità all’arte italiana negli US.
Magazzino Italian Art. Photo by Javier Callejas. Courtesy Magazzino Italian Art.
Quindi l’Italia è troppo esterofila e non valorizza al meglio il proprio valore?
Io credo che l’Italia abbia un patrimonio straordinario e che questa esterofilia vada bene perché non bisogna essere isolati, ma bisogna rendere prioritario un focus sul proprio territorio. Credo sia un discorso di coraggio da parte della leadership di investire nelle proprie comunitá, non mi riferisco solo al contesto artistico ma anche quello sociale.
Riscontri differenze nel proporre mostre di arte italiana in Italia rispetto a New York?
Assolutamente sì, il contesto americano non conosce generalmente l’arte italiana, poco passa attraverso le programmazioni istituzionali newyorkesi; l’arte italiana non è stata la priorità; quindi, c’è bisogno che qualcuno fornisca i mezzi giusti per affrontrare l’argomento. Si parla finalmente di storia dell’arte globale e ci si approccia con prospettive nuove e non solo storicizzate, non mi aspetto che si parli solo più di arte territoriale, ma è importante aiutare, in un contesto come il nostro, il mondo curatoriale ed accademico a interessarsi all’arte italiana. C’è un problema di fondo: la tensione tra l’esterofilia generale di certe programmazioni ed il controllo completo di alcuni artisti da parte di un certo mondo accademico e curatoriale, che scoraggia quello americano. I dipartimenti dei grandi musei americani non vogliono bussare sempre alla stessa porta e cercano narrative nuove rispetto agli artisti storicizzati. È difficile per un ricercatore americano approcciarsi al lavoro di un artista italiano, oltre ad esserci un problema legato alla bibliografia legata alla lingua, ci sono proprio limiti di accesso alle fonti. Quindi Magazzino diventa il punto di contatto tra due mondi: regala l’opportunità di conoscere le opere di Arte Povera in collezione, offrendo anche l’accesso ad una vasta biblioteca di volumi e monografie e volumi spesso tradotti in inglese dal nostro team. Invitiamo giovani ricercatori ad approcciarsi all’arte italiana, a creare una discussione su temi nuovi. Vogliamo slegare la narrativa su certi artisti dai soliti uffici e dalle solite persone che controllano questa narrativa, aprendo discussioni. Reintroduciamo negli Stati Uniti artisti come Costantino Nivola, sardo ma vissuto in America per gran parte della sua vita. Abbiamo esplorato la relazione tra Bochner e l’Italia attraverso un’indagine sulle connesioni del suo lavoro con quello di Boetti e Fontana. C’é tanto da fare, in quanto questo tipo di arte è poco presente nel contesto delle istituzioni enciclopediche americane; bisogna dunque rinforzarlo e dare una garanzia a progetti nazionali che si vogliono approcciare all’arte italiana. Un secondo problema è quello delle gallerie internazionali che non rappresentano artisti italiani contemporanei. Da parte nostra cerchiamo di ovviare a questi problemi organizziamo mostre supportandone le produzioni, pubblichiamo cataloghi ecc. cercando di supportare il più possibile giovani artisti che cominciano ad avvicinarsi agli Stati Uniti.
Magazzino Italian Art. Photo by Javier Callejas. Courtesy Magazzino Italian Art.
Questa politness, politically correct non è esasperata? Tutto deve essere ovattato, questa apparenza alla fine non nasconde un modo di pensare che è rimasto sempre lo stesso?
No, non credo. Penso che questo sia un momento storico di forte cambiamento e non penso che questi aspetti di politeness e politically correct siano in competizione. È un discorso di linguaggio che non necessariamente si traduce in un’aggressione. La questione di base è creare un ambiente inclusivo, portando tutti a responsabilizzarsi e a considerare l’altro. L’importante è rispettare quella che è la sensibilità altrui, e comunicare questa diversità per un contesto sereno e protetto. Credo che ricalibrare il linguaggio nelle definizioni di genere, condannando commenti sessisti e razzisti, sia fondamentale. In un contesto come gli Stati Uniti lo viviamo quotidianamente. Nel nostro ufficio convivono tutti i tipi di genere sessuale e di etnia. Credo che un’istituzione debba educare e che un linguaggio aggiornato ne sia alla base. In questo senso, in Italia bisogna fare ancora molta strada rispetto all’America. Penso che la forma faccia molta differenza soprattutto in contesti istituzionali e culturali come il nostro. Non possiamo più presumere che una persona sia tranquilla se sente battute sul suo aspetto fisico, sulla sua etnia ecc. Credo che si ritroverà un equilibrio a questo sbilanciamento. I problemi nascono non perché ci sia una sensibilità maggiore su temi di inclusività, di diversità ed equità, il problema è il coraggio di andare oltre e cambiare veramente le cose.
Cos’è la bellezza per te?
Non ho mai avuto un approccio “italiano” storico e artistico su cosa sia la bellezza nell’arte. Non penso sia un valore primario e formale. Quando penso alla bellezza, penso all’armonia tra le parti e a un equilibrio che si crea nel messaggio, ad una grande coerenza tra le cose. Il cercare di armonizzare tante voci in un coro e l’andare verso un'unica direzione è sintomo di bellezza. Quando tratto di storia dell'arte, non parlo del “bello”, il mio è più un discorso sociale.
La rivista si chiama Quid Magazine perché vuole indagare quella scintilla che rende unica una cosa, tu dove lo intravedi il quid?
Nella mia vita privata il quid risiede nella coerenza ai miei valori. Nella professione, in un Progetto come Magazzino Italian Art, risiede invece nel mio ruolo di direttore. Parlare di valori e ricordarlo è l’unico modo per affrontare questa situazione, in cui stiamo navigando a vista. L’unica ancora sono i valori legati alla comunità, al rispetto anche all’accountability che abbiamo verso di essa. Questo senso di responsabilità che lega tutto è il mio quid. Come dicono nei paesi anglofoni “less is more” e io tendo a ridurre molto le cose all’essenziale se devo prendere delle decisioni importanti; per cui la coerenza, la trasparenza, l’accountability, l’idea della dimensione umana e del rispetto delle persone sono fondamentali e da tutelare. Un’istituzione, un individuo, secondo me, deve sempre avere in chiaro qual è la sua scala di valori, senza la quale viene meno la sua essenza. Il problema, quando parlo con certi colleghi è la mancanza di chiarezza di questi valori.
Arte Povera, ongoing exhibition at Magazzino Italian Art, Cold Spring, N.Y. Photo by Alexa Hoyer. Courtesy Magazzino Italian Art.
Progetti del Magazzino?
Si appresta ad aprire un nuovo Padiglione che si sommerà a quello esistente. Tra qualche mese compiremo il quinto compleanno e grazie a questa occasione, vogliamo consolidare la nostra programmazione qui a Coldspring, focalizzarci sulla parte educativa lavorando con i più piccoli e continuare la ricerca accademica. Inoltre, vogliamo iniziare a tenere conto della legacy e garantire che Magazzino continui ad operare in ogni ambito come ha fatto in questi anni; inaugurare un nuovo spazio ci permetterà di avviare una programmazione annuale più ambiziosa con più visitatori.
Cosa ti ha insegnato il momento di lockdown?
In realtà mi sta insegnando ancora, in quanto stiamo uscendo solo adesso da un’emergenza che trovo più semplice rispetto alla riconfigurazione di uno scenario completamente nuovo. Mi ha fatto capire che stiamo riodinando le nostre priorità verso una centralita della qualità della vita. In un contesto istituzionale no profit come il nostro, questo si traduce nell’affrontare la questione etica sia nella programmazione che nell’organizzazione, garantendo la qualità dell’esperienza lavorativa ai nostri dipendenti. Una cosa che mi sta molto a cuore è la consapevolezza che un nuovo modello stia emergendo. Non ci sarà un ritorno, ma una nuova sfida da vincere.