Eugenio Viola "cerco di dare uno sguardo differente a quelli che sono i problemi del nostro presente incerto"

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Eugenio Viola, curatore Padiglione Italia alla Biennale Arte 2022, Bogota, 2022, foto CAMO (Camilo Delgado Aguilera)

 

Intervista al curatore del Padiglione Italia alla 59esima Biennale di Venezia e chief curator presso il MAMBO di Bogotà.

By Camilla Delpero

 

Come nasce Eugenio Viola?

Ho iniziato la mia carriera da curatore da freelance, poi dal 2009 ho lavorato per il Museo Madre di Napoli, all’inizio come junior curator e poi come Curator at Large, occupandomi del Dipartimento di ricerca e dello sviluppo della Collezione, fino al 2016. Successivamente, ho deciso di cambiare la mia vita e mi sono trasferito a Perth - Western Australia – dove mi sono fermato per due anni e da lì ho partecipatp alla candidatura per la posizione di Chief Curator che si era nel mentre aperta presso il Museo de Arte Moderno de Bogotà. La mia passione per l’arte nasce da bambino, ho avuto la fortuna di trasformare quella che era la mia passione in lavoro. Qui posso essere parte di un processo di ricostruzione sociale e civile attraverso la cultura, cosa che considero un grande privilegio, oltre che una grande responsabilità.

Come mai Bogotà? Quali differenze trova a livello estetico fra il Sud America e l’Europa?

Ho lavorato moltissimo con artisti sudamericani anche prima, quando ero al Madre di Napoli. Dal 2007 in avanti ho continuato a lavorare apprezzando questa visceralità dell’arte. Mi ritengono un esperto delle poetiche performative, prolifere nell’ambiente latino-americano, di cui conosco perfettamente il contesto. Mi hanno scelto per questa mia esperienza. Per cui, perché il sud America? Io sono nato al Sud, mi sono trasferito nell’emisfero sud e vivo nell’America del sud, è ineliminabile dal mio destino: viva il Sud. Mi trovo sempre a mio agio in questa città. Bogotà è una versione estrema di Napoli: questa sorta di anarchia creativa è spalmata su una megalopoli di otto milioni e mezzo di abitanti, quindici milioni comprese le periferie. Questo caos o entropia creativa, questo vivere al limite - che è parte anche del fascino di Napoli - qui lo ritrovo amplificato. Napoli è stata una buona palestra.

Parliamo del Padiglione Italia alla Biennale 2022. Unico artista, scelta che ha disorientato alcuni e “trovati preparati” altri. Cosa mi puoi anticipare?

È stata una scelta contestata, per fortuna accolta con fiducia dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, ma non dovrebbe stupire, perché ci affianca allo standard europeo. Ironicamente, allo schema trinitario presentato nelle ultime edizioni del Padiglione Italia alla Biennale Arte, ho optato per un artista che è “uno e trino”. Potrei dire di aver scelto Gian Maria Tosatti in quanto ha una grande padronanza degli spazi molto ampi e il Padiglione Italia ha una estensione di 2000 mq circa.  Oltre alle sue qualità e capacità artistiche, è stata determinante anche la lunga consuetudine lavorativa assieme. Abbiamo lavorato a quella che definisco una saga curatoriale di tre anni intitolata “Sette Stagioni dello Spirito”, conclusasi con quella che è stata anche la mia ultima come curatore al Madre di Napoli. Entrambi abbiamo questa tensione etico-politica rispetto al presente che caratterizza sia la sua ricerca sia la mia scelta curatoriale; scelta che ritrovo nel confrontarmi con un territorio, come quello colombiano, particolarmente difficile, ricco di lacerazioni e contraddizioni. Chi conosce la ricerca artistica di Gian Maria, conosce la capacità di costruire questi grandi dispositivi che risemantizzano gli spazi. È un artista intellettuale, alla cui base c’è sempre una tensione letteraria che ne sostiene la ricerca. Insieme, abbiamo maturato una serie di punti per un’analisi critica e propositiva del presente.

 

Gian Maria Tosatti Eugenio Viola Pad Italia Biennale 2022 10

Gian Maria Tosatti, Eugenio Viola Padiglione Italia 59° Biennale 2022.

 

Eugenio come fa nascere i suoi progetti curatoriali? Oppure come nasce una “semplice” pubblicazione?

Dipende in quale veste mi trovo. Nella mia di chief curator al MAMBO di Bogotà, devo dettare la linea culturale, per cui non parlo di progetti ma di cicli espositivi. Ultimamente abbiamo lavorato su un ciclo dedicato alla Donna. Abbiamo lanciato il primo premio latino-americano dedicato alle donne artiste. Su invito, di cui questo il meccanismo: ho formato una gouria coinvolgendo una serie di colleghi come Cecilia Fajardo-Hill, ex curatrice della Cisneros Fontanals Arts Foundation (CIFO), che ha curato “Radical Women” Latin American Art, 1960–1985; Cuauhtémoc Medina, capo curatore del MUAC di Mexico City, uno dei colleghi più stimati nel Sud America; Agustín Pérez Rubio curatore del Padiglione cileno alla Biennale, ex direttore del MACBA di Buenos Aires, nonché curatore dell’undicesima Biennale di Berlino, oltre al sottoscritto e alla curatrice della Julius Bär Collection, Barbara Staubli. Ognuno di noi presentava cinque nomi, 25, da cui abbiamo selezionato le cinque finaliste: Sandra Gamarra Heshiki, Voluspa Jarpa, Sandra Monterroso, Rosângela Rennó e Mariela Scafati. La vincitrice è stata l’artista cilena Voluspa Jarpa, con un progetto site-specific intitolato “Syndemia” che si occupa della violenza da parte della polizia, in occasione dell’agitazione sociale in Cile ed in Colombia nel periodo tra ottobre 2019 e marzo 2020. L’arte deve reagire a tutto quello che succede, anche alla censura. Il ciclo espositivo si chiama “Conversación al Sur”, in omaggio al primo libro scritto da Marta Traba, fondatrice del MAMBO, esiliata con accusa di bolscevismo dal dittatore Gustavo Rojas Pinilla perché parlava male di lui all‘università, per cui “democraticamente” la espulse. Al mio lavoro applico quello che definisco con le parole di Agamben: un approccio archeologico al presente, ossia richiamarsi al passato per interagire alle incertezze del presente in modo dialettico, e se necessario polemico. Un progetto di più ampio respiro, che deve trasmetterti dei valori.

È più soddisfacente trattare artisti che provengano da zone con forti problematiche politiche rispetto a degli artisti che vivono in nazioni democratiche? Oppure l’arte è ugualmente forte anche se priva di un messaggio politico.

Mi occupo di contesti, sono come un inviato speciale della realtà (per richiamare la fortunata formula di Achille Bonito Oliva). Qui, mi rapporto dunque a questo contesto. Sviluppo e affronto tematiche che ritengo abbiano un’importanza e che dialoghino in modo intelligente con le problematiche locali, pur potendo, per induzione, riferirsi a problematiche più globali.

Cos’è per te la bellezza?

Qualcosa di irriducibilmente soggettivo.

Apparenza, o apparire, in un mondo purtroppo dominato dalla politeness o dal politically correct. È deleteria o formativa e creativa?

Non mi sono mai definito politically correct pur ricoprendo un ruolo istituzionale; è una questione di coerenza che ho dipanato nel corso degli anni. Considero tutte le mie mostre e i miei progetti come saggi scritti in immagini che compongono una successione lineare. Attraverso questa coerenza di discorso sono la persona più lontana da questa politeness, anche quando lavoravo in Australia dove la politeness è una regola.

Cos’è l’arte contemporanea?

Una delle artiste colombiane viventi più importanti, Beatriz Gonzalez, cronista della guerra civile, ama ripetere: “l’artista racconta quello che la storia non può raccontare”. Questo occhio strabico e complementare serve per dare un contro-racconto sulle inquietudini e lacerazioni del presente.

Un artista che ti è rimasto nel cuore, un tuo maestro, anche contemporaneo.

Ho imparato molto da Orlan (Mireille Suzanne Francette Porte) oggetto della mia tesi di laurea, in seguito sono diventato il suo specialista; sono cresciuto con lei e ho curato 6 sue mostre, inclusa la sua più grande retrospettiva nel 2007, al MAMC di Saint Etienne, in Francia.

Perché hai voluto fare la tesi su di lei?

Perché cercavo qualcosa di radicale e quando mi stavo laureando l’eco delle sue operazioni era forte ed era quanto ci fosse di più radicale. Nella mia vita ho avuto due maestri: uno accademico, Angelo Trimarco, e l’altro Lóránd Hegyi, che quando ho conoscouto era il direttore del Museo d'arte moderna di Saint-Étienne, che mi chiamò a curare con lui la retrospettiva di Orlan. È stato il mio primo grande progetto internazionale, nel 2007. Trimarco mi disse che avrei dovuto intraprendere la carriera di curatore. In realtà ero molto timido e volevo solo fare ricerca all’università, ma aveva visto lontano, perché mi riesce molto bene lavorare con gli artisti.

Questo lavoro con gli artisti può essere difficile a livello empatico?

Devi creare un’empatia altrimenti diventa difficoltoso. Marina Abramovic dice “It’s all about trust” ed è esattamente così. Per Marina ho cocurato al PAC di Milano, con Diego Sileo, il suo primo grande progetto, dopo “The Artist is Present”, intitolato: “The Abramovic Method”, nel 2012.

Cosa ti ha lasciato lavorare con lei?

È un artista che lavora da 40 anni e sa cosa vuole, come lo vuole e sa come arrivarci. Tuttavia, conserva quella freschezza nell’approccio, quella curiosità nello sperimentare un rischio. Questa sua esperienza mi ha donato una serie di consapevolezze su diverse questioni. È stata lei a decidere di lavorare con me e non il contrario, che ovviamente non sarebbe stato possibile. Da lei ho appreso una certa etica della ricreazione, a indagare e scoprire ambiti e territori della re-performance. E ai suoi principi mi sono ispirato per curare, nell’ambito della retrospettiva di Vettor Pisani che ho curato al Madre di Napoli nel 2013 con Andrea Viliani e Laura Cherubini, il Primo festival in Italia di (re)performance, rimettendo in scena le performance storiche di Vettor Pisani, lavorando con la vedova dell’artista, Mimma Pisani, rimettemmo in scena: “Androgino maschile femminile e oro” del 1973, “Lo Scorrevole” del 1972, ed “Il coniglio non ama Joseph Beuys” del 1976.

La rivista si chiama Quid Magazine dove lo intravedi, questa scintilla che rende unica una realtà?

In un progetto di vita, nel rischio di vivere. La vita è un viaggio e la mia vicenda biografica la dice lunga al riguardo.

Aspetti a cui tieni e che vuoi menzionare?

Sono per un aspetto etico e socialmente impegnato della curatela; è quello che faccio e quello che cerco di portare avanti nei miei progetti. Sono tanti capitoli di un unico grande racconto. Non faccio politica perché non sono un attivista; bensì un “artivista”, nel senso che  . Non dò necessariamente un parere, perché credo che un’opera, un progetto, un Padiglione o un dispositivo funzioni se ti fa sorgere più domande che risposte.