La ricerca e la preparazione per la partecipazione nazionale alla 14esima Biennale di Gwangju
"Il titolo “Che cosa sogna l’acqua quando dorme?”, oltre a collegarsi con il tema dell’esposizione centrale, è un invito gentile ad abbracciare la possibilità, a livello universale e cosmologico, di cambiamento." Intervista alla Direttrice artistica Valentina Buzzi.
By Camilla Delpero
Come nasce un progetto curatoriale come “Che cosa sogna l’acqua quando dorme? / What does water dream, when it sleeps?" presentato alla Biennale di Gwangju?
Il progetto curatoriale nasce dalla volontà dell’Istituto Italiano di Cultura a Seoul di portare un padiglione che riflettesse un’Italia contemporanea ed attenta a temi fondamentali come quello dell’ambiente e della sostenibilità, riflettendo una linea di pensiero del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale riguardo alla promozione della creatività contemporanea. Dopo una serie di incontri e di vari brainstorming con il direttore dell’IIC Michela Linda Magri, abbiamo iniziato a sviluppare un progetto curatoriale che abbracciasse queste tematiche ma che lo facesse tramite una piccola grande sfida: l’idea di portare in campo temi come il post-antropocentrismo, la connessione interspecie e la trasformazione, come parte di una matrice generatice che guardasse al cambiamento paradigmatico, capace di suggerirci “la possibilità di essere qualcos’altro”, per citare Elizabeth Grosz. L’idea di lasciare la complessità di questi temi fluire grazie alle opere presentate, ed avere tematiche molto importanti quanto difficili da declinarsi di volta in volta in maniera diversa, abbraccia la volontà e la visione dell’arte visiva contemporanea come intrinsecamente connessa alla società in cui opera, e di conseguenza ai visitatori, con i quali speriamo crei una connessione emozionale.
Il titolo del padiglione, Che cosa sogna l’acqua quando dorme?, oltre a collegarsi molto bene con il tema dell’esposizione centrale, ci invita a ripensare il nostro modo di esistere al mondo ribaltandone l’antropocentrismo e riconoscendo ciò che è altro da noi. La mostra è un invito gentile ad abbracciare la possibilità, a livello universale e cosmologico, di cambiamento. Proprio per questo, lo fa guardando alle radici del nostro passato - ricordandoci l’idea del costante divenire di Eraclito - e al futuro - abbracciando le promesse dei mostri come pura ibridazione. È un’invito aperto ad una possibilità tangibile quanto necessaria, che speriamo possa essere accolto da più persone possibili.
Come ha scelto i 5 artisti? Secondo quali parametri li ha selezionati? Come è stato il lavoro con loro?
I cinque artisti presentati - Camilla Alberti, Yuval Avital, Marco Barotti, Agnes Questionmark, e Fabio Roncato - sono stati scelti tramite un’attenta ricerca e selezione fatta in collaborazione con l’IIC di Seoul e con alcuni miei contatti esterni. Camilla Alberti aveva già un legame stabilito con l’Istituto poiché vincitrice del concorso pubblico Cantica21 del MAECI, che l’aveva portata a Seoul. Con lei, grazie al partner istituzionale Seoul Institute of the Arts, abbiamo sviluppato una residenza di ricerca e produzione di 3 mesi, dove ha attivato una serie di workshop e lectures con gli studenti dell’accademia. È stata un’esperienza fondamentale di scambio ed arricchimento reciproco, complice l’idea di volere non solo trasmettere valori legati all’Italia e alla pratica dell’artista, ma di lavorare su tematiche comuni e creare connessioni con il territorio. Da questa esperienza dell’artista é nata l’opera Learning in Dis-Binding (2023), dove i mostri - in qualità di entità non definite ne definibili - raccontano di nuove mitologie ibride interspecie.
Camilla Alberti, Making of Learning in Disbinding, artistic residency at Seoul Institute of the Arts 104hx78x100 cm, 2022. Photo by Munjin Seo
Anche per l’artista Fabio Roncato abbiamo attivato una residenza di produzione di circa un mese e mezzo presso il Dong-gok Museum of Art di Gwangju, location che ha poi ospitato il padiglione. L’artista ha lavorato in collaborazione con lo studio di artigiani Chang Art su una interpretazione dei vasi Onngi (vasi tradizionali coreani usati quotidianamente) in gesso alabastrino, poi erosi dalle acque delle cascate e dei fiumi della città. L’artista ha anche potuto consultare gli archivi dell’Asian Culture Center sulla storia della città - importantissima, poiché Gwangju è il luogo dove nasce la democrazia in Corea - che ha ispirato la sua opera Follow Me (2023).
Fabio Roncato, Follow Me (2023), Installation view at the Italian Pavilion (c) Italian Cultural Institute in Seoul, Ph. Parker McComb
Ho incontrato Marco Barotti ad una mostra organizzata da Hyundai circa un anno fa, e mi sono molto interessata al suo unire arte e tecnologia, lavorando in collaborazione con istituzioni scientifiche a livello globale. Marco aveva già esposto in Corea in varie occasioni e ci è piaciuto molto il suo modo di studiare e relazionarsi al territorio in modo scientifico, per poi rielaborare le informazioni raccolte in maniera molto poetica con le sue kinetik-sound sculptures. Da qui è nata l’idea di lavorare con l’opera Clams (2019), il cui soundscape microtonale risponde ai dati di inquinamento delle acque, in questo caso, dei fiumi di Gwangju.
Marco Barotti, Clams Kinetik sound sculpture (2019). Courtesy of the artist.
Con Yuval Avital avevo già lavorato in precedenza durante la pandemia, e ciò che apprezzo molto è la capacità dell’artista di lavorare sugli elementi archetipali e rituali dell’umano. Abbiamo dunque deciso di portare l’opera multimediale Foreign Bodies (2017 - 2022), che racconta del distacco dell’umanità contemporanea dalla natura, completata da una performance in collaborazione con danzatori locali, ed una serie di disegni a carboncino e dipinti site-specific negli spazi del padiglione. L’opera è cosi diventata totalizzante ed immersiva, unendo video, suono, performance, disegno, e pittura.
Yuval Avital, Foreign Bodies N.1, Postcards n.19, duration 00 10 002019. Courtesy of the artist.
Last but no least (come dicono gli inglesi), Agnes Questionmark ha portato una performance molto forte - Drowning in Living Waters (2023) - in un acquario creato ad hoc per il padiglione. L’artista, di cui mi ero affascinata dopo aver visto una sua performance a Forof a Roma, ha una capacità molto potente di catturare l’audience per portarla verso la sua idea di fluidità, transformazione, e profonda connessione con l’elemento marino, instaurando l’idea di una possibilità di diventare “più che umani”, spingendo il corpo ai suoi limiti, in un necessario ritorno nell’acqua dalla quale abbiamo tutti origine. Insieme, tutti gli artisti raccontano - ognuno nella propria declinazione - di connessioni perse e ritrovate, sempre in chiave generatrice, di trasformazioni locali, ma al contempo universali, fortemente necessarie.
Agnes Questionmark, Drowning in Living Waters (2023), Performance at the Italian Pavilion (c) Italian Cultural Institute in Seoul, Ph. Parker McComb
Lo scenario artistico asiatico ha una maggiore sensibilità su alcuni temi differenti rispetto al mondo occidentale, oppure in un mondo globalizzato tutti abbiamo le stesse sensibilità e problematiche che ci accomunano?
Lo scenario asiatico ha sicuramente delle tematiche e cosmologie differenti, in quanto l’arte parte da esigenze e realtà diverse da quelle occidentali. Del resto, le tecniche e le filosofie di pensiero adottate dagli artisti sono sempre riconducibili ai loro territori di appartenenza. È però interessante vedere come tematiche molto urgenti e contemporanee come la questione ambientale sono presenti in equal modo, ovviamente con diverse declinazioni, a livello globale. La nozione di globalizzazione, anch’essa estremamente complessa, richiederebbe una sua risposta a parte, ma è importante, in qualità di curatore, sapere conoscere e studiare i vari scenari nei quali ci si immerge a fondo, e imparare a entrarne in relazione, soprattutto in progetti che portano una connessione tra territori. In questo caso, figure come l’Istituto Italiano di Cultura sono molto importanti perchè la loro presenza permette l’instaurazione di un rapporto profondo con il paese ospitante, e di realizzare a pieno la loro missione istituzionale.
Ci può parlare brevemente delle caratteristiche della Biennale Gwangju, com’è lo scenario rispetto a Biennali occidentali?
La Biennale di Gwangju è un’appuntamento molto importante, poiché rappresenta la biennale più antica nel territorio Asiatico. Nata nel 1995 - 100 anni dopo Venezia - ha una valenza fondamentale nella storia coreana poiché nasce proprio per onorare i moti rivoluzionari del 1980 che portarono la democrazia nel paese del calmo mattino. Quella di Gwangju è anche una Biennale che guarda molto alle tematiche sociali contemporanee, e lo fa con una curatela di molto alto livello, e con una partecipazione globale che permette di raccontare prospettive sia locali che universali, come è successo in questa 14esima edizione curata da Sook-kyoung Lee. È molto difficile parlare di un confronto tra Biennali occidentali e orientali, poiché per la loro identità ibrida di manifestazioni molto spesso al contempo istituzionali e di resistenza, le Biennali sono sempre state molto decentralizzate. Ad oggi, esistono oltre 200 biennali in tutto il mondo, tanto che già anni fa era stato coniato il termine “biennalization” o “biennale fever”. Penso che sia molto importante, e interessante, cercare di guardare come in realtà molte biennali hanno una matrice locale abile però di sfociare nell’universale, e di quanta interconnessione ci sia tra di loro, nonostante la decentralizzazione. Ovviamente, sicuramente il punto di riferimento rimane Venezia, che ha dato origine al concetto stesso di Biennale, e che ancor oggi rimane il canone con cui confrontarsi.
Cos’è andato perduto nel mondo dell’arte e cos’è che invece potremmo definire innovativo?
Negli anni '30 del '900 Walter Benjamin affermò che la dimensione auratica dell’arte era stata distrutta dall’avvento del cinema e della fotografia. Pochi decenni dopo, Arthur Danto, un’importante critico d’arte e filosofo, sostenne “la fine dell’arte” in reazione ad una mostra di Andy Warhol che vedeva protagonisti i famosissimi Brillo Boxes. Molto spesso questi passaggi della storia dell’arte sono visti in chiave negativa. In realtà, Benjamin stesso credeva che la rottura dell’aura avrebbe permesso la fruizione dell’opera d’arte ad un pubblico molto più esteso; Arthur Danto riconosceva la nascita di una nuova possibilità di arte, capace di rompere i canoni storici e stilistici conosciuti finora. Una delle principali regole della fisica è che nulla si crea ne si distrugge, ma esiste in virtù di una continua trasformazione. Penso che nulla sia stato davvero perso, ma che in realtà ogni produzione artistica sia figlia del suo tempo e perciò risponda a logiche necessarie della contemporaneità. Forse la vera rivoluzione e innovazione avvenuta negli ultimi anni, ma che ancora costituisce una sfida, è l’idea di un’arte che possa parlare a tutti, partecipativa, e capace di rompere quella barriera invisibile che ci fa dire “l’arte non fa per me”. Se potessimo continuare su questa linea, e davvero far si che l’arte tornasse ad essere una necessità intrinseca per tutti, sarebbe un’incredibile vittoria. Molte altre cose che riteniamo innovative, come l’utilizzo della tecnologia o gli incontri tra arte e scienza, oppure il rapporto potentissimo tra arte e società, esistono da sempre (pensiamo a Leonardo, o a i greci), con modalità sempre diverse, ma presenti da molto tempo.
La rivista si chiama Quid magazine perché indaga il quid quella scintilla che rende unica una cosa. Qual è la forza, il quid delle opere presentate o del padiglione stesso, come dialogano tra loro?
La forza delle opere presentate in questo Padiglione è quella di rappresentare un unicum e nello stesso tempo di essere fortemente connesse, rispondendo al leitmotiv della mostra in chiave propositiva e generatrice. Penso che questa lettura, che vede il Padiglione Italiano come un’invito, una spinta nuova verso il cambiamento, abbracci fortemente le identità di tutti gli artisti presentati in questa bellissima avventura.