«La memoria della modernità. Disegni di bambini giapponesi della Raccolta Levoni» al MUSEC di Lugano

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"Volevo comprendere a ogni costo come bambini così piccoli (tra gli otto e i dieci anni), avessero potuto realizzare opere pittoriche dalla maturità sorprendente". Intervista a Sabrina Camporini, co-curatrice del progetto.

By Camilla Delpero

 

Come nasce la tua esperienza curatoriale per l’esposizione «La memoria della modernità. Disegni di bambini giapponesi della Raccolta Levoni» visibile al MUSEC fino al 2 luglio?

Nasce in modo inconsueto: si tratta infatti della mia prima esperienza curatoriale; sono una designer al suo «debutto» come curatrice. Ciò che ha convinto il direttore del MUSEC, Paolo Campione a propormi la collaborazione per questo progetto è stata la particolare sensibilità che contraddistingue il mio lavoro, la capacità di cogliere anche piccoli dettagli, di interpretare la grafica e il disegno. Il mio compito, oltre che nel coordinamento della ricerca, si è concentrato principalmente nell’analisi delle tecniche, della struttura grafica e della grammatica visiva delle opere presentate in esposizione, ambiti in qualche modo affini al mio lavoro. 

 

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  Foto di Luca Meneghel.

 

Che rapporto hai avuto con la collezionista Gloria Levoni?

Un ottimo rapporto direi. C’è stata subito molta empatia. Gloria Levoni è una donna di grande vitalità, con una passione coinvolgente per l’arte e i viaggi. I disegni giapponesi della sua raccolta mi hanno incantato e lei è riuscita ad affascinarmi con la storia sorprendente che la raccolta nasconde, vicenda descritta magistralmente nella sua conversazione con Paolo Campione, pubblicata nel catalogo della mostra. 

Come hai affrontato il progetto? Raccontaci qualche dettaglio del tuo lavoro.

Istintivamente, ho cercato di provare la stessa emozione di Gloria Levoni nel vedere per la prima volta tutti i disegni su una bancarella del mercatino di Fontanellato. Ho dunque stampato i disegni in formato reale e ho tappezzato una parete del mio studio per avvicinarmi allo stesso genere di impatto. Il risultato è stato sorprendente. Nel loro insieme, i colori saturi generavano un ambiente cromatico uniforme e avvolgente. Il pigmento, così denso, in qualche disegno addirittura materico, mi ha profondamente incuriosito. Volevo comprendere a ogni costo come bambini così piccoli (tra gli otto e i dieci anni), avessero potuto realizzare opere pittoriche dalla maturità sorprendente. Ho deciso perciò di copiare uno dei disegni per capire attraverso una prova pratica, la tecnica utilizzata. Dopo un test deludente con i pastelli a cera, mi sono avvicinata a un risultato più convincente, plastico e intenso, con i pastelli a olio, che si prestavano perfettamente a essere sfumati, stratificati e anche diluiti. 

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Palazzo, pastello a olio su carta 25,5×29,3 cm. Disegno di Komayama Hiroshi, bambino di età compresa presumibilmente tra gli otto e i dieci anni della Scuola elementare ordinaria di Īzuka, nella prefettura di Fukuoka.

 

La tua ipotesi sulla tecnica del pastello a olio sottintende che non è stata mai fatta un’analisi di laboratorio?

Le prime esposizioni temporanee dei disegni della Raccolta Levoni («I colori del buio», 2002; «Infantàsia», 2005) hanno principalmente comportato analisi di carattere storico ed estetico, non tecnico-pittorico. L’esposizione luganese segna invece senza dubbio un importante avanzamento nella ricerca, anche scientifica sulle preziose opere d’arte infantile. Il Laboratorio di Chimica analitica dei Beni Culturali dell’Università degli Studi dell’Insubria, ha analizzato con metodi non invasivi le principali campiture di colore di un nucleo rappresentativo dei disegni, evidenziando la presenza di olio come legante, e confermando quindi la mia ipotesi iniziale sull’utilizzo del pastello ad olio. In parallelo, è stata determinante la testimonianza di Mieko Namiki Maraini, designer, maestra di ikebana, vedova del celebre etnologo e orientalista Fosco Maraini, che mi ha parlato dei modelli educativi della scuola e della cultura giapponese degli anni Quaranta, confermando l’uso dei pastelli a olio come strumento principale del disegno artistico. La conversazione con Mieko Namiki Maraini è stata anch’essa pubblicata in catalogo. Incrociando le informazioni, sono così riuscita a rintracciare i pastelli che con ogni probabilità furono usati dai bambini del 1938! Si tratta dei pastelli ad alta viscosità Sakura «Cray-Pas®» perfezionati nel 1924 sulla spinta della rivoluzione pedagogica avviata dal celebre pittore giapponese Yamamoto Kanae, il quale sosteneva nei suoi scritti l’importanza dell’autoapprendimento creativo, della rappresentazione dal vero en plein air e di un uso massiccio del colore, lasciando al bambino la massima libertà degli accostamenti cromatici. Le tesi di Yamamoto furono in seguito, nel 1932, adottate dal Ministero dell’Istruzione giapponese e diffuse in tutte le scuole elementari del Paese. 

Le indagini sui disegni, non si fermano però al colore, come si può evidentemente dedurre dagli interessanti articoli contenuti dal catalogo.

Proprio così. Ho avuto il piacere di lavorare con esperti di varie discipline che si sono appassionati al progetto e hanno dato un contributo rilevante alla nostra ricerca.I cartigli, presenti sul retro dei disegni, sono stati accuratamente tradotti da Izawa Akiko, docente di lingua giapponese, che ha anche cercato le tracce del Concorso Morinaga (da cui provengono i disegni della Raccolta Levoni), interpellando le scuole e i comuni giapponesi dei bambini che avevano realizzato i disegni nel 1938. Cristina Corti e Laura Rampazzi, dell’Università degli Studi dell’Insubria hanno analizzato da un punto di vista chimico-fisico i materiali pittorici e i pigmenti rilevando una singolare continuità con i materiali e le tecniche tradizionali giapponesi. Chiara Ghidini, docente di Religioni e filosofie dell’Asia orientale dell’Università degli Studi di Napoli l’Orientale, ha delineato il valore della creatività infantile nella cultura giapponese e, in particolare, il modo in cui tale creatività entra in relazione con la civiltà, la letteratura e le arti figurative. Giorgio Bedoni, psichiatra e psicoterapeuta, ha analizzato la rilevanza, non soltanto psicanalitica, dell’impossibilità della rimozione culturale nel disegno infantile. Marco Fagioli, storico e critico d’arte, ha tracciato un’analisi della persistenza della cultura figurativa giapponese, in particolare quella dell’ukiyo-e, nel sistema di rappresentazione dei disegni della Raccolta Levoni. Moira Luraschi, curatrice delle collezioni di arte orientale del MUSEC, ha scritto interessanti approfondimenti iconografici che permettono al lettore di sentire più viva la cultura giapponese del tempo.

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Koinobori, pastello a olio su carta 29×25,5 cm. Disegno di Watanabe Atsushi, bambino di dieci anni della Scuola elementare ordinaria Higashi Nibanchō di Sendai, nella prefettura di Miyagi. Il quinto giorno del quinto mese, ovvero il 5 maggio nel calendario gregoriano, si celebra in ogni casa il «Giorno deibambini» (Kodomo no hi). Ogni famiglia in cui vi siano bambini pone su un pennone, o sui tetti, stendardi orizzontali di carta o di stoffa, dipinti a mano, a forma di carpa (koinobori), in ordine dall’alto verso il basso, dal più lungo al più corto.

 

Parliamo di iconografia giapponese. Il modo di raffigurare il paesaggio dei disegni colorati dei bambini del 1938 è tipico di una cultura in cui l’arte della scrittura e il bianco e nero sembrano essere predominanti?

L’insegnamento delle materie artistiche in Giappone comprendeva lezioni di calligrafia e di arte. Con la rivoluzione pedagogica di Yamamoto Kanae, fu abbandonata la copia di modelli con inchiostro nero, per introdurre l’uso massiccio del colore e della rappresentazione libera del paesaggio, privilegiando il disegno all’aperto, anche senza l’aiuto dell’insegnante. È un modo di raffigurare il paesaggio che si affermò negli anni Trenta e persistette anche nei decenni successivi, come testimoniano le bellissime immagini di Fosco Maraini presenti sia in catalogo che in esposizione. Un modo, peraltro, che pose la pedagogia dell’arte giapponese all’avanguardia nel mondo. 

 

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 Foto di Luca Meneghel.

 

Che cos’è la bellezza, Sabrina?

È l’armonia che genera equilibrio interiore. Spesso riconosco la bellezza nascosta nelle piccole cose. 

La rivista si chiama Quid Magazine perché vuole indagare il quid, quella scintilla che rende unica qualsiasi cosa. Tu dove lo intravedi?

È tutto ciò che inspiegabilmente prende forma e, inaspettatamente, mi sorprende.