Gli artisti riescono a dare una risposta molto egotista alla vita. Evviva l’egotismo.

 

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"La verità è bellezza e la bellezza è verità". Intervista al critico d'arte, curatore e docente all'Accademia di Belle Arti di Brera Marco Meneguzzo.

By Camilla Delpero

 

Parlami del Progetto “Light Project” a Palazzo Reale. Quando tempo ha richiesto? Cosa vuoi raccontare ai visitatori?

Voglio raccontare un’artista curiosa, oltre al fatto che incuriosisce lei stessa. Nanda fa parte di un gruppo di artisti ora tenuto d’occhio, fa parte di quell’avanguardia degli anni ‘60 che sta diventando la bandiera degli anni italiani. Lei oltretutto è anche un’artista che ha frequentato vari territori. In qualche momento storico è stata considerata più vicina al design, quindi definita designer e architetto di interni più che artista. Ora ne riscopriamo i valori artistici. L’intento della mostra è dare l’idea d’insieme delle sue capacità di integrare tutto in modo armonico. Lei creava le opere d’arte esattamente come i progetti di design e di interni.

Quanto lavoro o meglio quanto tempo c’è voluto per organizzarla, realizzarla?

C’è un tempo di maturazione, poi c’è il tempo di accettazione della mostra stessa e un tempo di realizzazione. Dal momento che io conosco benissimo l’artista e so tutto di lei, facendo parte della piccola organizzazione che cura i suoi interessi, i tempi di realizzazione sono relativamente stretti, nel giro di sei mesi riesci a fare tutto. Però sei mesi di duro lavoro.

 

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Nanda Vigo lights forever deep space cm 210 x 1035 x 33 5 installstion view galleria allegra ravizza lugano, 2016. Foto Emilio Tremolada

 

Nanda Vigo, un maestro, come lei poche, il tuo rapporto con lei?

Lei è un personaggio. Come diceva Idro Montanelli “dicono che ho un brutto carattere perché ho un carattere.” Lei è sempre stata determinata nelle sue azioni. Persegue un’idea e la porta avanti a tutti i costi. Se fai il politico può essere un male, se sei un artista è un segno della tua coerenza.

 

1964 Cronotopia foto Nini e Ugo Mulas

 Cronotopia foto Nini e Ugo Mulas, 1964.

 

Cos’è per te l’arte contemporanea?

È un bel metodo per passare la propria vita cercando di interpretare il mondo in maniera non banale, non comune. È anche un modo presuntuoso di essere nel mondo. C’è questa duplicità, una capacità di guardare molto avanti e dall’altra parte un’enorme concretezza nel guardare la vita, senza cadere nelle cose materiali. L’arte è l’espressione del mondo, siamo al mondo ma ci domandiamo “Chi siamo? Che ci facciamo?”. Gli artisti riescono a dare una risposta molto egotista. Evviva l’egotismo.

La bellezza oggi esiste ancora?

La bellezza esiste; purtroppo non è ai primi posti della classifica per giudicare qualsiasi cosa, forse è un enorme sbaglio. Bisognerebbe considerare la bellezza una gigantesca virtù. Tutti pensano alla necessità, al dovere e alla verità, ma la verità è bellezza e la bellezza è verità. Sicuramente è così.

L’arte riflette sempre il suo tempo e anzi anticipa il mondo. L’arte di oggi dove ci porta, è lo specchietto tornasole di quale società o situazione?

Questa è una cosa su cui riflettere. Se fino alle avanguardie storiche e agli anni ’50 -‘60 l’arte era in anticipo sui tempi, adesso mi sembra che l’arte si sia pareggiata con i tempi, ti mostra il qui e l’ora. Riuscire a trovare qualcuno che ti dica “domani sarà così, dobbiamo andare verso quella direzione” è veramente difficile. In questo tempo c’è un’arte sociale, un arte che oggi ti dice quanto è brutta la guerra in Siria, ieri ti diceva quanto era brutta la guerra in Iraq e così via ripercorrendo il passato. Vorrei un’arte che dicesse quanto è brutta la guerra e basta. Ovviamente deve essere legata al proprio tempo per avere uno spunto, ma lo sguardo deve andare oltre.

Quindi l’energia dell’arte passata sembra essersi spenta o no?

Si è un po’ spenta perché l’arte contemporanea sembra aver vinto su tutti i fronti. Le avanguardie artistiche dovevano lottare per affermare se stesse e il proprio modo di vedere le cose. Basta notare come si comporta lo spettatore. Una volta andava a vedere una mostra d’arte d’avanguardia e si ritraeva criticando quella forma d’arte e solo il 10% lottava per dire che era forte e lungimirante. Adesso c’è un’uniformità, un’omologazione per cui nessuno osa dire nulla e tutti pensano di essere più à la page se accettano quello che vedono senza discutere.

È più appagante insegnare alle nuove generazioni da dietro una scrivania o mediante un progetto culturale, una mostra come ad esempio questa prossima mostra?

Sono molto fortunato, perché facendo sia l’una e l’altra cosa vivo questi due mondi. Le due cose vanno di pari passo. Mi accorgo di quanto questa mia attività curatoriale, di realizzazione di mostre entri nell’insegnamento e viceversa. Noto quanto entusiasmo io metta nel realizzare una mostra per le giovani generazioni che sono molto ignoranti, ma che chiedono e sono molto curiose di sapere. Ecco perché le mie mostre riescono bene, perché hanno quel mix di didattico e di linguaggio alto. Non voglio portare per mano il visitatore, ma so che una parte di ciò è necessaria. L’aspetto maieutico di una mostra è importante sia con lo spettatore sia con lo studente; bisogna cercare di educare, dal verbo e-ducere ossia portare fuori ciò che uno ha dentro.

Quale artista ti è rimasto dentro, quale stimi maggiormente.

Sono tanti gli artisti che stimo. Castellani l’ho stimato per molte cose. Nanda la stimo per questa sua personalità e inguaribile volontà. Bonalumi era un uomo dolcissimo. Dadamaino era un personaggio con qualcosa di ancora inespresso, con una forte voglia di arrivare. Ognuno ha in sé un risvolto che mi piace e mi incuriosisce. Ognuno ha qualcosa da dire, non solo i grandi artisti lo posso fare.

Come nasce Marco Meneguzzo?

Sono figlio d’artista. Mio padre era ceramista e scultore con un certo successo e importanza nella Milano degli anni ’50. Da piccolo una galleria per me non era un tunnel, ma era una galleria d’arte. C’è stato un momento in cui mi sono detto: “Non sarò troppo indirizzato. È esattamente quello che voglio fare dal momento che tutto mi porta verso questa direzione?” Dopo qualche anno di riflessione mi sono accorto che è la mia strada.

I musei privati sempre più potenti, l’importante è fare cultura di qualità oppure si rischia di incorrere in certe strategie e favoritismi?

Si rischia sempre di incorrere in favoritismi. Ho scritto un libro uscito di recente “Il capitale ignorante. Ovvero come l’ignoranza stia cambiando l’arte” edito da Johan and Levi editore. Negli ultimi 30-40 anni tutto sta cambiando e il gusto cambiato sta influenzando i modi dell’arte. Detto ciò è una cosa inevitabile, intanto i musei privati sono gli unici che si possono permettere alcune mostre perché hanno i soldi. Se ci sono tanti musei privati vorrà dire che c’è o nascerà una concorrenza tra di loro. Ciò è una buona cosa, meglio se poi ci fosse una concorrenza tra i musei pubblici e i musei privati e ancora meglio se ci fosse tra musei pubblici, privati e gallerie d’arte.

Qual è il progetto curatoriale che ti è rimasto maggiormente impresso o che ti ha dato maggior soddisfazione?

Sono state le prime cose. Ho fatto una prima mostra su Azimut nel 1984 al PAC di Milano quando non la voleva fare nessuno e nessuno sapeva cosa fosse. L’aver scoperto e portato alla luce l’arte programmata nel 1995. Tutto è stato di grandissima soddisfazione, come lo è stato questo libro che ho scritto “Il capitale ignorante. Ovvero come l’ignoranza stia cambiando l’arte” ed è sempre più soddisfacente l’insegnamento che immagino come un progetto curatoriale.