"Reaching for the Stars" testo a catalogo del direttore e curatore Arturo Galansino
"Questo viaggio sarà lungo. Non resta che allacciarsi le cinture e partire per raggiungere le stelle"... "Reaching for the Stars", la collezione della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo in mostra a Palazzo Strozzi, visibile dal 3 marzo al 18 giugno.
Reaching for the Stars è un viaggio intergalattico nel cosmo dell’arte, un itinerario lungo e articolato, attraverso fenomeni e figure chiave del contemporaneo: le stelle che ci indicano il cammino. E proprio una stella è il simbolo della collezione formata da Patrizia Sandretto Re Rebaudengo di cui questa mostra celebra il trentennale, dalle prime acquisizioni nella Londra ruggente di inizio anni Novanta fino alle ultime commissioni agli artisti emergenti degli anni Venti del nuovo millennio.
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Palazzo Strozzi, con la sua storia secolare legata al mecenatismo e al collezionismo, è sicuramente il luogo ideale per festeggiare questo importante anniversario. Già nella Firenze del Quattrocento si cercavano le risposte alle proprie domande nello spazio infinito, indagando l’influenza sia delle “stelle fisse” che di quelle “erranti” sulla vita degli uomini: lo stesso Filippo Strozzi si affidò agli astri prima di avventurarsi nella costruzione del suo imponente palazzo. Seguendo le teorie degli antichi Romani, che pensavano fosse Mercurio a influenzare la creatività degli artisti, l’incisore fiorentino Baccio Baldini eseguì a bulino la serie dei Sette pianeti (1460 circa), raffigurando i Nati sotto Mercurio mentre dipingono, scolpiscono, cesellano, compongono musica, filosofeggiano, si interessano alle scienze, all’astronomia, all’astrologia, alla matematica: una varietà di attività, ricerche e interessi che appare perfettamente in linea con l’approccio multidisciplinare di questa poliedrica esposizione. Per il filosofo neoplatonico Marsilio Ficino, nel suo De triplici vita (1489), gli artisti erano invece “nati sotto Saturno” e venivano da lui descritti come lunatici, ribelli, licenziosi, stravaganti e soprattutto «melanconici»: una rappresentazione che avrà, secoli più tardi, il suo corrispettivo nel moderno mito dell’artista maudit.
Seppur le opere esposte a Palazzo Strozzi, a occupare le sale del Piano Nobile, gli spazi sotterranei della Strozzina e il cortile, rappresentino una parte infinitesimale della Collezione Sandretto Re Rebaudengo, questa selezione vuol rendere conto della varietà e ricchezza della raccolta torinese, attraverso temi e raggruppamenti inediti in grado di fornire al visitatore uno sguardo sulla produzione artistica internazionale degli ultimi decenni: una galassia all’interno della quale brillano gli astri più luminosi della collezione. Queste stelle dell’arte provengono da tutti i continenti, sono originarie di numerose nazioni, testimoniano linguaggi diversi, hanno affrontato nella vita esperienze antitetiche: così, se Hans-Peter Feldmann, il più anziano degli artisti qui esposti, appartiene alla generazione che ancora ha subito i drammi della Seconda guerra mondiale, Giulia Cenci, la più giovane del gruppo, è una millennial.
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La mostra comincia con l’imponente razzo di Goshka Macuga, posizionato nel cortile, che punta letteralmente alle stelle e sembra in attesa di venir lanciato. Evocando la speranza di salvezza del genere umano in altri mondi, Macuga vuole portarci verso nuovi pianeti, incoraggiandoci a guardare il cielo, a dirigere le nostre aspirazioni verso un orizzonte più ampio. Il razzo è però ancorato al terreno, senza motore, in un’ambigua staticità, mentre impazzano progetti privati di viaggi spaziali ed esplorazioni del cosmo elaborati da megalomani desiderosi di creare un nuovo ed elitario “turismo spaziale”, incuranti nello stesso tempo degli effetti dell’inquinamento e degli sprechi economici ed energetici sulla parte più povera della popolazione mondiale.
Si può immaginare di salire a bordo del missile per dirigersi verso il remoto angolo dell’universo disseminato di stelle luminosissime fotografato da Thomas Ruff, attraversare campi magnetici balenanti di colori come le pennellate di Albert Oehlen e le aurore spaziali di Greifbar 48 di Wolfgang Tillmans, imbattersi nelle creature ancestrali di Thomas Schütte, nei replicanti ibridi di Avery Singer, negli incroci zoomorfi di Paola Pivi e ritrovarsi a viaggiare nel tempo, fino alle archeologie post-apocalittiche di Marc Manders e alla vanitas di rovine erose e catalizzate dal tempo di Adrián Villar Rojas. Il razzo di Macuga ci parla anche del nostro momento storico e della caducità della condizione umana al tempo dell’onda lunga post-pandemica, con i cambiamenti provocati e le incertezze lasciate, in uno scenario inquietante di disastri ambientali che stanno mettendo in dubbio la possibilità per gli esseri umani di continuare a vivere sulla Terra. Anche le opere di Damien Hirst) alludono alla nostra fragilità, con l’illusoria immortalità ricercata attraverso i processi di imbalsamazione o attraverso le fredde teche disertate dalla presenza umana. Le sigarette, presenti spesso nei suoi lavori sono una breve esplosione di piacere che porta alla morte, «la corruzione assoluta della vita». Evoca la precaria condizione umana anche Viral Research di Charles Ray, tavolo di laboratorio predisposto per una lezione sul fenomeno dei vasi comunicanti ed espressione figurata della società, dove i vasi di vetro, diversi per forma e dimensione e collegati da tubi in cui scorre un inchiostro nero e denso, veicolano sensazioni di “contaminazione” suscitate dalla minacciosa sostanza vischiosa abbinata alla fragilità del vetro.
Anche Maurizio Cattelan, indefesso provocatore e protagonista dello star system dell’arte, gioca sul tema del memento mori con Bidibidobidiboo, la scena surreale di uno scoiattolo appena suicidatosi, che rovescia il rassicurante immaginario disneyano in una totale perdita di speranza. Un’opera che trasuda amara ironia e, come tutte quelle dell’artista, aperta alle più varie e personali interpretazioni. Spiazzante è anche La rivoluzione siamo noi, autoritratto iperrealista dello stesso Cattelan, che ci guarda attraverso gli occhi del suo pupazzo-caricatura, appeso a un appendiabito modernista e vestito di un abito di feltro, attributo tipico dello “sciamano” Joseph Beuys, figura iconica degli anni Settanta ed evocato pure dal titolo. Un autoritratto è anche quello di Pawel Althamer che ha usato cera, grasso, capelli e intestino animale per affrontare un soggetto centrale nel suo lavoro.
L’artista, che si è invec chiato e imbruttito, si offre nudo allo sguardo del pubblico per osservarsi dall’esterno e indagare il tema dell’alienazione e della solitudine. Drammaticamente ironico è Lullaby, opera ancora di Cattelan, sacco che raccoglie macerie dell’attentato mafioso del luglio 1993 al PAC di Milano, costato la vita a cinque persone. Altri temi di dolorosa attualità sono trattati da Josh Kline con le sue sculture iperrealistiche che alludono al dramma della disoccupazione, di chi è stato respinto dalla società: i due lavoratori, chiusi in un sacco di plastica e pronti per essere gettati nell’immondizia, prefigurano un futuro distopico in cui si assisterà alla cancellazione della dignità delle persone, “forza lavoro” eliminata e sostituita da macchinari e dall’intelligenza artificiale.
Shirin Neshat, (Qazvin, IR, 1957, vive e lavora a New York), Faceless from Women of Allah Series, 1994 stampa fotografica, inchiostro; cm 149 x 107 Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo.
Temi sociali, in particolare legati alla condizione della donna, sono affrontati da alcune star della “Pictures Generation”, come Cindy Sherman, Barbara Kruger, Sherrie Levine, e da diverse female artists appartenenti a diverse generazioni. La serie di Sherman Untitled Film Stills, che ha dato inizio alla pratica performativa e concettuale in ambito fotografico, riflette in particolare su tematiche quali la rappresentazione e l’identità, essendo le fotografie ricostruzioni fittizie di scene cinematografiche che ci sembra di riconoscere come reali, perché ispirate a immaginari e sguardi ormai introiettati attraverso i media.
Se Sherman trasforma la propria persona assumendo fattezze sempre diverse e atteggiamenti contrastanti, Vanessa Beecroft pone al centro del suo lavoro la rappresentazione del corpo femminile, in una sperimentazione continua tra performance – che attingono, oltre che all’attualità sociopolitica, alla storia dell’arte con citazioni di opere del passato – e la pratica disegnativa, come attesta il Disegno qui esposto. Il laconico titolo indica il punto di partenza del modus operandi dell’artista, che nella figura anoressica pone l’accento sul tema del rifiuto del proprio corpo.
Sherman ha influenzato direttamente Sarah Lucas, Young British Artist della prim’ora che con due opere in mostra, Love Me e Nice Tits, si oppone all’immagine della donna oggetto secondo i tradizionali stereotipi maschili. Love Me gioca in modo ambivalente: sulla parte inferiore di un corpo femminile, seduto con le gambe aperte in una posa invitante, è sovrapposto un collage composto da immagini di occhi e bocche, che alludono all’intercambiabilità tra «bocche e orifizi sessuali, sguardo e atto sessuale», in bilico «tra fisicità e simbolismo». Fa pensare, invece, a un’era preistorica la Femme sans tête di Berlinde De Bruyckere, in cui un corpo femminile brutalmente mutilato viene messo “in vetrina”, in una oggettivazione di dolore, paura, lacerazione e vulnerabilità: emozioni che toccano soprattutto le donne, maggiormente vittime di violenza.
Cindy Sherman, (Glenn Ridge, USA, 1954, vive e lavora a New York), Untitled Film Still #24, 1978, stampa fotografica; cm 20 x 25,5, Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo Photo: Sebastiano Pellion di Persano.
In opposizione a ogni corporeità prorompente, Fiona Tan offre col suo raffinatissimo video Saint Sebastian uno sguardo su una femminilità eterea e insieme carica di tensione: le due facce dello schermo presentano visioni antitetiche della cerimonia di iniziazione del Toshiya, ambedue giocate sull’eleganza degli abiti, delle acconciature e dei gesti, ma in cui l’intimità composta di un lato si fronteggia con l’energia fremente dell’altro. Il riferimento nel titolo al santo martirizzato dalle frecce vuole congiungere cristianesimo occidentale e filosofia buddhista, mentre la gara di tiro con l’arco rappresentata nell’opera mostra la spiritualità zen di questa pratica tradizionale, che prevede «l’arte del respirare, tendere l’arco, rimanere in tensione, scoccare» (come afferma Eugen Herrigel in Lo Zen e il tiro con l’arco, Milano, 1975). L’ampia rassegna di videoinstallazioni comprende anche un lavoro dell’artista di origine iraniana Shirin Neshat, che ci parla della condizione delle donne sotto una teocrazia dittatoriale e il loro ambiguo essere state allo stesso tempo protagoniste e vittime della rivoluzione khomeinista, e un video dell’egiziano Wael Shawky, che rilegge le Crociate da un’ottica musulmana, trasformando la narrazione in uno spettacolo musicale di marionette grottesche.
Anche Andra Ursuţa indaga e den uncia gli stereotipi culturali e razziali con la sua straniante scultura, che critica le discriminazioni subite dalla popolazione rom, mentre Lynette Yiadom-Boakye, figlia della diaspora africana in Inghilterra, rilegge il genere tradizionale del ritratto attraverso personaggi di colore fittizi, per sottolineare l’esclusione dei neri dall’immaginario storico-artistico. Questioni e soprusi razziali sono denunciati anche dal «carbone animato» di William Kentridge sulla segregazione in Sudafrica.
Lynette Yiadom-Boakye, (Londra, UK, 1977, dove vive e lavora), Switcher, 2013, olio su tela; cm 150 x 140, Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo.
Una domanda di fondo sottende una mostra su una delle più importanti raccolte europee di arte contemporanea: come fa un collezionista a puntare alle stelle? La storia di Patrizia Sandretto Re Rebaudengo può essere d’ispirazione per cercare, nei cieli dell’arte, una risposta a questo impossibile interrogativo. Una grande collezione si forma grazie a una irrefrenabile passione, seguendo le proprie intuizioni, spinti da una pantagruelica curiosità, oltre che, ovviamente, dalla propria cultura e dal proprio gusto. Una collezione è fatta di scoperte e anticipazioni, ma è anche frutto di errori, occasioni mancate e può comprendere qualche assenza ingombrante. L’universo dell’arte è infinito e ogni velleità di completezza resterà disattesa anche dal più instancabile esploratore spaziale; importante è che sia chiara la rotta e che il radar funzioni bene.
Questo viaggio sarà lungo. Non resta che allacciarsi le cinture e partire per raggiungere le stelle.
Arturo Galansino