BUON COMPLEANNO HANS GEORG BERGER
Hans Georg Berger, © Daniela Zedda
Per l'occasione pubblichiamo una conversazione tra il Maestro e il direttore Paolo Campione avvenuta durante la presentazione del catalogo della mostra “La discliplina dei sensi. Hans Georg Berger. Una retrospettiva” .
By Camilla Delpero
“Non è solo un catalogo; è un libro di 400 pagine, 250 illustrazioni e 30 articoli di contributori quali artisti, scienziati e letterati che provengono da oltre 15 paesi diversi.”
La conversazione è stata incentrata sulla poetica e sulle qualità dell’artista cercando di indagare la filosofia e il quid che risiede dietro le sue fotografie esposte, le quali abbracciano circa 50 anni di carriera.
La prima domanda posta da Paolo Campione è stata la più semplice, ma anche la più complessa da rispondere. Perché usare il medium della fotografia. La fotografia di Hans Berger è uno strumento con cui poter essere accompagnati nella rilettura del passato, non è soltanto un documento, una testimonianza, ma è qualcosa che ci permette di interpretare la cultura che ci circonda. La fotografia è stata uno strumento pedagogico, come ha raccontato lo stesso Hans:
“io sono una persona curiosa che vuole imparare”
All’artista non gli interessa riportare la realtà riprendendo in modo compulsivo oggetti fotografabili, ma bensì instaurare un dialogo con il soggetto da raffigurare e solo dopo raccogliere il materiale per costruire una documentazione. Per citare le sue parole fotografare è “un processo” con cui si instaura una conversazione con il soggetto. Porre le basi per una conoscenza più profonda di ciò che si sta osservando. Fotografare gli permette:
“di imparare ad avere meno paura delle cose strane del mondo e di quello che mi preoccupa”.
L’artista si pone in una condizione di umiltà mentre ascolta e osserva la cultura, le tradizioni dei popoli e delle religioni da lui indagate. Tra diversi popoli e nazioni ci posso essere molti fraintendimenti dovuti alle tante interpretazioni e differenze culturali, ma quando si ha fisicamente un’immagine precisa, delimitata dai contorni della stampa, puoi metterti a tavolino e chiedere cosa il tuo interlocutore vede, iniziando così un dialogo costruttivo.
I progetti realizzati nelle madrasse sciite sono stati volutamente realizzati in città minori rispetto alla capitale come Teheran. In città come Esfahan, Qomm o Mashhad è stato possibile fotografare gli uomini, i gesti e i rituali grazie all’enorme pazienza e curiosità dell’artista che con il desiderio di apprendere è stato accompagnato all’interno di un mondo fino all’epoca chiuso all’occidente. Grazie a una tecnologia analogica ha saputo conservare e testimoniare culture che sarebbero andate perdute a causa dei cambiamenti politici e sociali. In regioni come il Laos il comunismo aveva garantito una sorta di protezione fino a quel momento, con la sua fine il pericolo di una dispersione delle tradizioni a discapito del consumismo e del turismo era imminente.
Alla domanda sul perché della scelta del bianco e nero, il Maestro ha esordito dicendo che è una “forma di astrazione che ci permette di concentrare maggiormente il nostro sguardo e di riflettere più fortemente sulle cose senza distrazioni.”
Potremmo indicare come luogo di inizio di tutto il suo percorso, l’eremo di Santa Caterina all’isola d’Elba. L’artista con alcuni amici ha abitato in un vecchio monastero su una montagna della zona mineraria. Questa esperienza di totale libertà ha permesso a questo gruppo di artisti e ricercatori di creare dei progetti di cui alcuni visibili a Villa Malpensata. Come afferma Campione
“La vita di un artista ha una profonda assonanza con la sua opera. Nel tuo caso credo che sia tutto profondamente intrecciato, per me è stata la cosa più difficile in questi cinque anni perché sapevo che non stavo lavorando insieme a te e curare un’esposizione temporanea, ma stavamo attraversando tutta la tua vita.”
L’eremo non è stato solo un luogo di incontro tra intellettuali, ma è stato anche luogo di una relazione speciale con lo scrittore francese Hevré Guilbert. Non si può non citare, seppur brevemente, Hervé che è stato soggetto di molte fotografie di Hans. Compagno di un’esperienza e di una conoscenza profonda con cui hai sperimentato uno scambio intenso e continuo; un legame personale anche estetico da cui è scaturita tutta l’esperienza artistica che ha seguito, ossia, una forma di fotografia chiamata in mostra “fotografia condivisa”.
“Per me fotografare questo amico è stato un modo per capirlo, conoscerlo, avvicinarmi a lui più del solito. La fotografia è stato uno strumento emotivo e forse anche amoroso”.
La scomparsa di tale compagno ha creato una scossa e un crollo nel mondo del Maestro che a causa, o forse dovremmo dire in virtù di questa tragedia, ha deciso di abbandonare l’eremo di Santa Caterina e di volare verso altri orizzonti. È stato necessario evadere dall’occidente alla scoperta della sua piccola parte di Asia. Come racconta l’artista l’oggetto del suo apprendimento sono state le religioni minori.
“Esse non sono tutto nella vita degli stati, degli uomini ecco perché ho visto e vissuto una fetta di quello che si può chiamare Asia.”
Una grande parte della conversazione è stata incentrata sulla sua ricerca in Asia e sul suo approccio fotografico in quei luoghi dalla differente percezione dell’immagine, dell’estetica e del ritratto. Il suo intento è stato quello di concentrarsi sulle minoranze religiose come il buddismo theravada e l’islam sciita. È voluto andare nelle più piccole città dell’Iran, dove ci sono luoghi di grandissimo prestigio e di grande qualità adibiti all’insegnamento tradizionale che non hanno la possibilità di un confronto con il mondo occidentale. La lentezza causata dal medium fotografico e dalla macchina hasselblad è stata fondamentale per questo apprendimento. Grazie a ciò è riuscito ad entrare in culture con una percezione e un’estetica dell’immagine completamente differenti dalle nostre. Gli ha permesso di instaurare un dialogo e un confronto che ha portato alla conoscenza e alla conservazione di un mondo tutto da scoprire.
“Io volevo ideare un processo di conversazione dove i soggetti delle mie foto potevano esprimersi. Sono convinto che loro sanno meglio di me e che io devo pormi come un allievo desideroso imparare e non di uno che vuole dare lezioni”. Un grande onore, nonché apice del lavoro svolto, è stato quando un abate buddista del Laos, dopo averlo visto all’opera per due anni, un giorno lo ha definito “The learning photographer”.
“Andavo e cercavo delle persone con cui poter instaurare un rapporto di fiducia e con delle persone che possono capire che cosa voglio fare, qual è l’obiettivo”. Abbiamo iniziato a lavorare prendendomi per mano dicendomi e indicandomi cosa facevano e le cose da immortalare. Si iniziava un discorso sull’estetica della fotografia e questo per me aveva un grande valore. Loro hanno un'altra estetica della fotografia rispetto alla nostra ed è stato un bellissimo confronto e ho imparato delle cose inusuali che se non pratichi non puoi apprendere. Lo stesso sistema lo applicato per il contesto sciita.”
Volevo che queste foto facessero parte di un processo interno alla comunità che mi interessava. Credo che le fotografie siano testimonianze di un processo di comunicazione che si è svolto tra fotografo e persona fotografata.
Concluderei l’approfondimento di questa serata con un’ultima frase del Maestro: “è vera arte: quando una cosa tecnica come un’immagine stampata in bianco e nero è capace di suscitare in una persona terza un movimento di amore, affetto e comprensione”.
La mostra sarà visibile fino al 16 gennaio presso il MUSEC di Lugano.