Mostre

 

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UNA COLLEZIONE ITALIANA e LA STANZA DI ZURIGO 

Due eventi a Palazzo Fortuny: opere della Collezione Merlini e un omaggio a Zoran Music

I temi del collezionismo, le ragioni e le passioni sottese alla nascita di una raccolta privata sono al centro della mostra dedicata alla raccolta di Giuseppe Merlini visibile dal 23 marzo al 23 luglio presso Palazzo Fortuny a Venezia.

Per Walter Benjamin ogni collezione è sospesa tra i due opposti “poli” di ordine e disordine, ed è la figura del collezionista che le dà senso, non tanto gli oggetti che la formano.

La collezione Merlini di scultura, disegni e soprattutto pittura spazia, attenendosi con rare eccezioni all’arte italiana, a tutto il Novecento fin dai primi decenni, con opere che risalgono al momento fondante dell’esperienza del moderno – disegni di Amedeo Modigliani, dipinti di Filippo de Pisis e poi lavori di Adolfo Wildt, Giorgio de Chirico, Alberto Savinio, Mario Sironi, Gino Severini, Giorgio Morandi, Massimo Campigli – fino all’astrattismo italiano o all’informale con importanti opere di Mario Radice, Lucio Fontana, Alberto Burri, Piero Dorazio, Giulio Turcato, Roberto Crippa, Alfredo Chighine, Piero Ruggeri.

La raccolta offre quindi una panoramica molto ampia dell’arte italiana del XX secolo e nel contempo invita a una sostanziale domanda: quali energie spingono a perseverare nell’impresa collezionistica? Quali curiosità intellettuali, quali incontri casuali orientano le scelte, contribuendo a dare a ogni collezione una propria fisionomia e spingendo a renderla fruibile al pubblico?

A cura di Daniela Ferretti e Francesco Poli

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Nel 1949 Zoran Mušic (Boca vizza, 1909 - Venezia, 2005) ricevette, da parte delle sorelle Charlotte e Nelly Dornacher, l’incarico di decorare il seminterrato della loro villa a Zollikon, nei pressi di Zurigo. L’insieme doveva costituire un esempio di “ opera d’arte totale”: oltre alle pitture su intonaco, tela di lino e juta, l’artista disegnò i motivi decorativi ricamati sulle tende e sulla tovaglia che ornavano la sala. Alcuni mobili, seppure non progettati da lui, furono scelti con il suo accordo a completamento dello spazio destinato a riunioni conviviali.

La maggior parte dei dipinti furono eseguiti direttamente sull’intonaco murario, cinque composizioni erano su tela di lino tesa su supporti fissati al muro, mentre per la decorazione della porta d’entrata fu utilizzata la tela di iuta: lo stesso tessuto delle tende e di una tovaglia ricamata su disegno d ell’artista, che ne scelse i colori e i differenti punti di ricamo.

Dopo anni di incuria e abbandono la stanza è stata recuperata grazie all’intervento di Paolo Cadorin, cognato di Mušic, direttore del dipartimento di restauro del Kunstmuseum di Basilea, che ha supervisionato lo stacco degli intonaci, il loro trasferimento su pannelli alveolari in alluminio e il recupero delle tele e degli arredi.

Un complesso lavoro portato a termine dai suoi allievi, restituisce finalmente al pubblico la “stanza di Zoran”, ricomposta ora a Palazzo Fortuny come elemento centrale di una mostraomaggio al suo autore. I tanti motivi profusi da Mušic in quest’opera – di una ricchezza quasi vertiginosa – costituiscono infatti, nel loro complesso, una sorta di summa iconografica della produzione artistica di quegli anni: dai motivi dalmati di donne a cavallo, col parasole, agli asinelli e cavallini nel paesaggio roccioso o danzanti nel vuoto; dai traghetti affollati di cavalli o bovini alle fasce decorative a losanghe, righe, volute, tondi o scandole; dai volti incorniciati e ieratici che ricordano Campigli a un ritratto “iconico” di Ida allo specchio e al proprio autoritratto. E poi le vedute di Venezia : le cupole e la facciata della Basilica, Palazzo Ducale, balaustre, archi, i portici della piazza, il Bacino di San Marco, San Giorgio, la Dogana, i bragozzi. Un’ampia e accurata selezione di opere realizzate tra il 1947 e il 1953, provenienti da collezioni private e dall’archivio dell’artista, completa il percorso espositivo.

Con il sostegno di Charlotte und Nelly Dornacher Stiftung

A cura di Daniela Ferretti


LA STANZA DI ZURIGO Omaggio a Zoran Music

 

IS ANOTHER

 

I is an Other | Be the Other

Mostra dedicata all’opera di 17 artisti contemporanei di origine africana.

La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma dal 20 marzo al 24 giugno presenta la mostra I is an Other / Be the Other, a cura di Simon Njami, dedicata all’opera di 17 artisti contemporanei di origine africana.Gli artisti in mostra, provenienti dal continente africano ma di formazione e ispirazione internazionale, condividono un orizzonte di ricerca comune sul rapporto con l’ignoto, che si individua a partire dall’incontro con l’altro. Attraverso 34 opere, che includono pittura, scultura, installazioni, video, fotografia e performance, la mostra parla del rapporto con l’altro, punto di partenza per la nostra conoscenza del mondo. Ogni artista esprime la propria ricerca dell’alterità, affidandosi ora alla mitologia, ora all’elemento visionario, al gioco, all’ironia, restituendo una grande varietà di interpretazioni. Il passato e il futuro si intrecciano e restituiscono una diversa visione della storia, caleidoscopica e aperta a stratificazioni temporali insolite, in cui si muovono le ricerche di questi artisti. La coralità delle loro opere dà forma ad un ricco insieme di prospettive con cui osservare la realtà. Accanto a maschere è quindi possibile trovare sculture di Nick Cave, evocative di ritualità immaginarie. Proprio la maschera è, per Simon Njami, il punto di partenza per indagare la relazione con l’altro, che mentre nasconde allude a qualcosa di diverso, fuori dal conosciuto.Muovendosi invece nell’indagine del rapporto con lo spazio, Maurice Pefura mette in scena una Divina Commedia, sorta di labirinto dove le pagine che compongono le pareti recano iscrizioni visibili solo da certi angoli, accompagnandoci in un rito di iniziazione.Il trittico di Bili Bidjocka ci trasporta nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso, senza che ci sia davvero un ordine preciso per compiere questo viaggio, nel corso del quale ognuno è libero di scegliere la propria idea di temporalità.

Mehdi-Georges Lahlou propone riletture ironiche, mentre Theo Eshetu inventa figure mutanti con molteplici volti che si intrecciano a formare una figura unica, un volto universale che non corrisponde a nulla che possiamo conoscere. Anche Jane Alexander crea un mondo in mutamento, un mondo post-apocalittico, che riecheggia nel lavoro di Phyllis Galembo

Wifredo Lam rivisita il pantheon vudù cubano, che trae le proprie origini nel Golfo del Benin, come una bussola che non indica alcuna direzione, mentre all’arte tessile si dedica Igshaan Adams, mediante le linee geometriche di un labirinto che non porta da nessuna parte. È questa stessa sensazione di labirinto, non fisico ma mentale, che emerge dalle composizioni di Paulo Kapela, per raccontarci una storia che non è mai avvenuta, come la Venere di Gille Gacha, rappresentante di un mito che contiene tutti i miti. Le parole di Simon Njami delineano la cornice di questo ambizioso progetto e della mostra I is an Other / Be the Other: “Il primo motore della tua esistenza, quello che ti fa uscire dalla tua caverna per spingerti oltre, oltre ciò che hai già visto, oltre ciò che già sai, è il bisogno di un altro. In ogni caso, favorevole o contrario, solo un altro ti permette di costruirti. È d’obbligo dunque ringraziarlo. Senza un altro, rinchiuso in te stesso, non avresti alcuna presenza nel mondo (...). La mostra invita a vivere esattamente questa esperienza di gioco di ruolo, nel senso psicanalitico del termine, proponendoci per un attimo di uscire da noi stessi per provare, con il corpo e con l’anima, l’ebbrezza di essere l’altro.” Dal 22 giugno 2018 lo stesso Simon Njami insieme a Elena Motisi cura al MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo un’altra mostra dedicata alla cultura africana: African Metropolis. Una città immaginaria. La mostra, realizzata in occasione della Seconda Conferenza Italia Africa organizzata dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, attraverso il lavoro di oltre 40 artisti, cerca di restituire il panorama di una scena artistica poliedrica e intensamente espressiva, e un’immagine contemporanea di città, una possibile città delle città basata sulla convivenza tra differenze.

 

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Joan Miró, Peinture, Estate 1936. Olio, caseina, catrame e sabbia su Masonite, 78x108 cm. Filipe Braga, © Fundação de Serralves, Porto. Per tutte le opere di Joan Miró ©Successió Miró by SIAE 2018

 

JOAN MIRÓ: Materialità e Metamorfosi

In prima mondiale al di fuori del territorio portoghese, l’importantissima Collezione Miró conservata nella città di Porto.

La Fondazione Bano e il Comune di Padova accolgono, in prima mondiale al di fuori del territorio portoghese, l’importantissima Collezione Miró conservata nella città di Porto, nella sede di Palazzo Zabarella, nel cuore di Padova, fino al 22 luglio.
Organizzata da Fundação de Serralves – Museu de Arte Contemporânea, Porto, Joan Miró: Materialità e Metamorfosi  riunisce ben ottantacinque tra quadri, disegni, sculture, collages e arazzi, tutti provenienti dalla straordinaria collezione di opere del maestro catalano di proprietà dello Stato portoghese.

Nella sua esplorazione della materialità, Miró fu eguagliato forse solo da Paul Klee. Di certo Miró allargò in maniera decisiva i confini delle tecniche di produzione artistica del Ventesimo secolo. Il percorso espositivo, focalizzandosi sulla trasformazione dei linguaggi pittorici che l'artista catalano iniziò a sviluppare nella prima metà degli anni Venti, documenta le sue metamorfosi artistiche nei campi del disegno, pittura, collage e opere di tappezzeria.
L’emozionante sequenza di opere proposta dalla mostra, evidenzia il pensiero visuale di Miró, il modo in cui egli ha saputo lavorare con tutti i sensi, dalla vista al tatto, ed esplora, al contempo, i processi di elaborazione delle sue creazioni.

L’importante Collezione Miró che debutta a Padova ha una storia recente piuttosto fortunosa. Le opere, furono di proprietà del Banco Português de Negociós, che tra il 2004 e il 2006 le aveva acquistate da una importante collezione privata giapponese. Il Banco nel 2008 venne nazionalizzato dallo Stato portoghese che, in fase di forti difficoltà economiche, decise di mettere sul mercato la prestigiosa Collezione. Incaricata della vendita fu Christie’s che, nel 2014, decise di porla all’asta presso la sua sede di Londra.
Ciò ha portato a una protesta immediata, e l'asta è stata prima rinviata e poi cancellata, così le opere di Miró sono rimaste in Portogallo. Sono state esposte pubblicamente per la prima volta al Museo Serralves di Porto, tra ottobre 2016 e giugno 2017, in una mostra che ha avuto oltre 240.000 visitatori, un evento che si è dimostrato essere una delle mostre di maggior successo della recente stagione espositiva portoghese. Prima di raggiungere Padova, la collezione è stata ospitata anche dal Palazzo Nazionale Ajuda a Lisbona con lo stesso titolo, Joan Miró: Materialità e Metamorfosi.

La mostra che Palazzo Zabarella propone al suo pubblico, copre un periodo di sei decenni della carriera di Joan Miró, dal 1924 al 1981. Concentrandosi in particolare sulla trasformazione dei linguaggi pittorici che l'artista catalano iniziò a sviluppare nella prima metà degli anni Venti. Documenta le sue metamorfosi artistiche nei campi del disegno, pittura, collage e opere di tappezzeria. Il pensiero visuale di Miró, il modo in cui lavora con i sensi, dalla vista al tatto, e i processi di elaborazione delle sue opere si osservano nel dettaglio.
Nel corso della carriera, Joan Miró (1893-1983) ribadì sempre l'importanza della materialità come fondamento della propria pratica artistica. Ciò non significa che i materiali gli imponessero tutti gli aspetti della raffigurazione: in diversi momenti egli produsse elaborati bozzetti preparatori anche per le opere più spartane e apparentemente spontanee. Ma è fuor di dubbio che il rapporto tra mezzo e tecnica abbia influito su tutti gli aspetti della sua produzione, dai primi quadri e collages fino agli ultimi lavori sotto forma di sculture e arazzi.

L'inventario dei supporti fisici utilizzati da Miró in settant'anni di attività artistica comprende materiali tradizionali, come tela (montata su telaio o meno, strappata, logorata o perforata), diversi tipi di carta da parati, pergamena, legno e cartone (ritagliato e ondulato), ma anche vetro, carta vetrata, iuta, sughero, pelle di pecora, fibrocemento, ottone, truciolato, Celotex, rame, foglio di alluminio e carta catramata.
I materiali - che instaurano sempre un equilibrio delicato con il supporto - includono olio, colori acrilici, gessi, pastelli, matite Conté, grafite, tempera all'uovo, gouache, acquerello, vernice a smalto, inchiostro di china, collage, stencil e dacalcomanie. Applicati in maniera innovativa su basi sia tradizionali che poco ortodosse: gesso, caseina e catrame, talvolta combinati con una eclettica gamma di oggetti comuni e materiali quotidiani, come linoleum, corda e filo.

Nel duplice ruolo di artefice e trasgressore della forma del modernismo del Ventesimo secolo — pittore e antipittore al tempo stesso — Miró sfidò il concetto stesso di specificità del mezzo, come questa ampia rassegna ha il merito di evidenziare in modo spettacolare.

 

Ad Reinhardt. Arte Satira

 

Ad Reinhardt. Arte + Satira

Mostra a cura di Diana Baldon presso la Galleria Civica di Modena

Dal 10 marzo al 20 maggio la Galleria Civica di Modena inaugura Ad Reinhardt. Arte + Satira, la prima mostra organizzata sotto l’egida della nuova FONDAZIONE MODENA ARTI VISIVE, di cui fa parte, a partire dallo scorso ottobre, la storica istituzione modenese.

La mostra, dedicata al celebre artista americano Ad Reinhardt (New York, 1913-1967), presenta per la prima volta in un’istituzione italiana un aspetto ancora poco studiato del suo lavoro. Benché l’artista americano sia noto principalmente come pittore astratto, questa esposizione raccoglie più di 250 opere tra fumetti a sfondo politico e vignette satiriche selezionati dagli archivi dell’Estate of Ad Reinhardt di New York. I lavori su carta sono accompagnati da una proiezione di diapositive scattate dall'artista in 35mm e ora digitalizzate, nonché da un considerevole numero di diari di viaggio, schizzi e pamphlet.

Conosciuto dal grande pubblico per i suoi black paintings, tele minimaliste, nere, realizzate negli anni Sessanta e venerate da un nutrito gruppo di artisti più giovani noti a livello internazionale – tra cui Sol LeWitt, Frank Stella, Robert Irwin, e Joseph Kosuth – l’eccezionale percorso di Reinhardt continua ancora oggi ad avere ampia risonanza. La pittrice sudafricana Marlene Dumas ha recentemente affermato: “Tutti coloro a cui interessa la differenza tra dipinti e immagini devono entrare in relazione con Ad Reinhardt. […] Chiunque trovi piacere nella critica d’arte e apprezzi l’ironia e lo humor […] non può che amare Ad Reinhardt”.

Reinhardt sviluppò il proprio interesse verso la pittura e il fumetto da bambino, mettendo a frutto questi talenti in numerose pubblicazioni scolastiche e durante i lavori estivi dalle scuole superiori al college. Nel corso degli anni Trenta e Quaranta, durante e dopo i quattro anni passati a lavorare in qualità di pittore astratto per la Easel Division del Federal Art Project degli Stati Uniti, Reinhardt creò più di 3.000 vignette satiriche e illustrazioni per copertine che apparvero su numerose pubblicazioni americane. Si ricordano i periodici New Masses, The Student Advocate e The Fight Against War and Fascism; svariate riviste tra cui Glamour, Listen e Ice Cream Field; nonché annuari di baseball e The Races of Mankind, pamphlet anti-razzista che vendette più di un milione di copie. Più notoriamente, Reinhardt lavorò nello staff artistico della redazione del quotidiano PM a partire dal 1943, realizzando le caratteristiche vignette-collage che uniscono elementi disegnati a mano a ritagli da libri di seconda mano, una tecnica inusuale mai apparsa prima sui quotidiani.

Dopo aver studiato e insegnato Storia dell’Arte per gran parte della sua vita, nel 1958 l’artista dichiarò: “Non credo nell’originalità. Io credo nella Storia dell’Arte”. Tale dichiarazione è comprovata nella sua serie di vignette sull’arte ampiamente omaggiata e riproposta, intitolata How to Look. La celebre serie apparve a pagina intera nell’edizione domenicale di PM nel corso del 1946 e fu utilizzata dall’artista come piattaforma per difendere in modo adamantino lo sviluppo e la comprensione dell’arte astratta in America. Il fumetto presenta un approccio didattico nel quale Reinhardt ironizza sul ruolo dell’intrattenitore pronto a spiegare tutto e che non era diretto unicamente ai lettori ma anche ai colleghi artisti. Dopo essersi assicurato una cattedra al Brooklyn College nel 1947, Reinhardt pubblicò occasionalmente altre vignette sull’arte nei periodici ARTnews, trans/formation e Art d’aujourd’hui, dove espresse le sue taglienti osservazioni satiriche sul mondo dell’arte contemporanea del tempo.

Nel 1952 Reinhardt cominciò a girare il mondo in lungo e in largo. Nei suoi numerosi viaggi in Europa, Medio Oriente, Giappone e Asia Sudorientale scattò più di 12.000 fotografie a colori che furono presentate in occasione dei suoi leggendari “Non-Happenings”. Queste conferenze visive, presentazioni di diapositive simili a maratone, riordinavano geografie e periodi storici in stupefacenti e imprevedibili sequenze, trasformando la lezione di storia dell’arte in una parodia umoristica del diario di viaggio dell’artista. Numerose immagini provenienti da culture lontane trovano così corrispettivi e giocosi accostamenti: le natiche delle statue fanno il verso alle geometrie di un idrante urbano. Le loro composizioni formali richiedono allo spettatore grande attenzione, come i dipinti e gli scritti di Reinhardt incoraggiano una consapevolezza attiva mentre li si guarda e se ne fa esperienza. Lungo tutto il lavoro di Reinhardt, incluse le opere presentate in questa occasione, risulta evidente un’incredibile capacità di allargare la nozione corrente di quale sia il dominio estetico dell’arte, e di quale possa essere.

Ad Reinhardt. Arte + Satira è realizzata in collaborazione con Ad Reinhardt Foundation, New York, e Mudam Luxembourg, e con un ringraziamento particolare a David Zwirner, New York/London/Hong Kong. La mostra curata da Diana Baldon è stata originariamente presentata dal 12 giugno al 6 settembre 2015 con il titolo Art vs. History alla Malmö Konsthall, Svezia.


Biografia

Ad Reinhardt (1913-1967) è stato uno dei più importanti artisti americani del XX secolo. I suoi dipinti incoraggiano la partecipazione attiva dello spettatore nell’atto di guardare ed esperire l’“arte per l’arte”. Come disse l’artista: “L’arte è arte. Tutto il resto è il resto”. Nel corso della sua vita con le sue opere ha preso parte a importanti esposizioni museali, tra cui Abstract Painting and Sculpture in America (1951-1952), Americans 1963 (1963-1964), e The Responsive Eye (1965-1966), The Museum of Modern Art, New York; The New Decade: 35 American Painters and Sculptors, Whitney Museum of American Art, New York (1955-1956); Abstract Expressionists Imagists, Solomon R. Guggenheim Museum, New York (1961); Painting and Sculpture of a Decade: 1954–64, Tate Gallery, Londra (1964); Black, White and Grey, Wadsworth Atheneum, Hartford, Connecticut (1964). Nel 1966, il Jewish Museum di New York organizzò la sua prima grande retrospettiva. Nel 1991 il Museum of Modern Art di New York inaugurò una retrospettiva del suo lavoro che in seguito fu esposta anche al Museum of Contemporary Art di Los Angeles. L’opera di Reinhardt è stata inclusa in recenti mostre presso il Whitney Museum of American Art, New York (2017), Haus der Kunst, Monaco di Baviera (2016-2017), National Gallery of Art, Washington, D.C. (2016-2017), Royal Academy of Arts, Londra (2016-2017) e Fondation Beyeler, Basilea (2016). Nel 2013, in occasione del centenario della nascita di Ad Reinhardt, David Zwirner ha presentato una mostra di vignette dell'artista, diapositive fotografiche e monocromi neri in collaborazione con la Ad Reinhardt Foundation e curata da Robert Storr. Le vignette, i fumetti sull'arte e le diapositive sono poi stati oggetto di una serie di mostre a cura di Diana Baldon presso Malmö Konsthall in Svezia (2015), EMMA – Espoo Museum of Modern Art in Finlandia (2016) e il museo Mudam Luxembourg in Lussemburgo (2017). Nel 2017 David Zwirner, New York, ha presentato una mostra dei blue paintings dell’artista in collaborazione con la Ad Reinhardt Foundation, la più vasta esposizione dedicata questo corpus di lavori di Reinhardt dal 1965.

 

Gianluca Balocco La vita delle cose 2018

Gianluca Balocco, La vita delle cose, 2018

 

BELLE DI NATURA - unione tra arte e natura

La mostra a cura di Francesca Bacci e Maria Fratelli presso Studio Museo Francesco Messina  è un momento storico e culturale di unione tra arte e natura

Nelle sale dello Studio Museo Francesco Messina si ammira la mostra Belle di Natura a cura di Francesca Bacci e Maria Fratelli, aperta dal 9 marzo al 4 aprile, in cui le sculture del maestro dedicate ad Accolla, Fracci e Savignano negli anni Cinquanta, entrano in dialogo con le fotografie delle tre danzatrici ritratte oggi da Gianluca Balocco e con gli arazzi disegnati di Zachari Logan, che si esprime sulle affinità del creato.

La mostra inaugura l'8 marzo con Aida Accolla, Carla Fracci, Luciana Savignano, in occasione della giornata dedicata alla donna, e invita a una riflessione sulla bellezza, su come la costruiamo all'interno della nostra cultura e del nostro giudizio e su come esiste in natura. Una riflessione che coinvolge tutti gli esseri umani, di qualunque sesso, e che a partire dalla rappresentazione delle donne ritratte da Messina sottolinea come quel paradigma si sia evoluto negli anni diventando oggi più complesso. 

L'esposizione organizzata dal Comune di Milano, Assessorato alla Cultura - Studio Museo Francesco Messina, voluta dalla direttrice del museo Maria Fratelli, è inserita nel ciclo di appuntamenti "Il lato della scultura" dedicato al rapporto tra scultura, l'immagine bidimensionale, che la rappresenta, la evoca o le risponde, sia essa fotografia o disegno.

 La selezione di 18 scatti di Gianluca Balocco, realizzati con un apposito set fotografico nelle storiche sale di Palazzo Reale per ritrarre tre celebri ballerine di fama internazionale, sono il risultato di un lavoro in cui le tre donne emergono per la loro forza, esperienza e vigore nel corpo esile e flessuoso come un giunco, modellato dal tempo. Si tratta di un'opera concettuale in cui il vestito indossato viene considerato come elemento di collegamento fra la realtà e una dimensione astratta e assume un ruolo e un peso diverso e del tutto personale per ogni danzatrice. Aida Accolla, con creatività e ironia indossa costumi di scena, e con essi diversi ruoli, immedesimandosi in una pianta che attraversa le differenti stagioni; Carla Fracci indossa un abito ideato per la mostra insieme all'artista, lungo 11 metri a indicare lo scorrere del tempo e di colore verde, in sintonia con la natura; Luciana Savignano con abiti lisi e consumati usati nell'allenamento di una vita, viene ritratta come una guerriera samurai, fisica e vitale.

Le tre figure femminili incarnano tre modi diversi di essere donna e di definire la bellezza, suggerendo riflessioni sull'omologazione estetica diffusa nella società contemporanea; in mostra le fotografie di piante sacre indiane riprese nella loro interezza, comprensiva di radici, rimandano alla unicità di ciascuna ballerina.

La loro bellezza naturale, frutto di esperienza e di maturità è paragonata dalla curatrice Francesca Bacci a quella presente nel regno vegetale: "in natura, infatti, vengono lodate le piante mature che, arrivate a quota, hanno rallentato la crescita per investire nella gestione della propria complessità. È la bellezza di una forma data dal tempo, fatta di forza e slancio, di resistenza e flessibilità, che esige rispetto. Bellezza permanente, non transeunte, perché sublime, nel senso etimologico del termine: che giunge e incalza fin sotto alla soglia più alta, al limite estremo della grandezza, punto di non ritorno, oltre il quale anche il pensiero si perde".

Il legame con il mondo vegetale si fa concettualmente imprescindibile anche nei lavori policromi di Zachari Logan che propone The Gate, un disegno realizzato ad hoc che si sviluppa in verticale come un arazzo sui tre piani del museo. Le tre sezioni dell'opera, in cui sono rappresentate differenti varietà di vegetazione che si rarefanno nella parte superiore, assumono la valenza di fondale scenico alle opere di Messina la cui presenza è evocata dagli spazi vuoti che alludono a un immaginario posizionamento delle sculture tra le foglie e dall'utilizzo di tutti i toni di verde presenti nelle patine metalliche dei lavori del maestro. Una metafora dell'ascesi spirituale che Logan mette in parallelo alle cantiche dantesche, un viaggio che si intraprende varcando un cancello, come cita il titolo stesso, e che dà accesso a un nuovo mondo. Come per Balocco, in Logan la natura è metafora da leggere con attenzione per allontanarsi da paradigmi deviati e devianti di bellezza che spesso si impongono nella società. Questo arazzo disegnato e scultoreo, fluttuante nello spazio vuoto al centro del museo, rifiuta il ruolo di sfondo, imponendosi come protagonista, facendoci sentire la nostra insignificanza nel confronto con il sublime, con l'infinita varietà di alberi, di piante tropicali e di erbe infestanti che, indifferenti al nostro giudizio di valore legato solo al possibile uso o sfruttamento per fini umani, sono fondamentali all'ecosistema per il loro ruolo legato al bio-equilibrio del pianeta terra.

Per completare il sovvertimento dei valori, al piano sotterraneo, a raccogliere il messaggio di questo spettacolare arazzo disegnato, chiude concettualmente la mostra l'autoritratto Naked in the rose in cui le foglie si scansano e si intravede nel giardino la figura dell'artista che cammina nudo. È una risposta ai corpi rappresentati da Messina, corpi in cui l'identità dei nudi atletici maschili contrasta con quella aggraziata e sensuale femminile propria dell'epoca, in una dicotomia risolta e armonizzata nel nudo di Logan, concettualmente al centro di una linea ideale tra questi due poli - maschile e femminile -, reso in monocromo rosa fuxia con uno stile realista che esprime unione, affinità con il creato, appartenenza al mondo come le radici delle piante al terreno. Una figura, questa, che chiude il cerchio delle identità possibili, fisiche, espressive e potenti, modulate da Messina nel vigore della giovinezza, riprese nei corpi potenti e naturali dalle ballerine di Balocco e risolte nel nudo profondamente umano di Logan.

Maria Fratelli commenta: "in mostra risalta la capacità di Messina di cogliere l'essenza immutabile dei suoi ritratti oggi rivisitati da Balocco con altrettanta attenzione e forza interpretativa. Le fotografie delle tre artiste, accanto ai disegni di Logan ricompongono la continuità e l'armonia della natura di cui l'uomo è parte, a significare che il pianeta terra è un tutt'uno, all'arte il compito di unirlo in un abbraccio".  

 

 

 

 

 

a cura di Francesca Bacci e Maria Fratelli