Mostre

 

 

BECKMANN 195 Paesaggio con mongolfiera

Paesaggio con mongolfiera, 1917, olio su tela, 75.5 x 100.5 cm, Museum Ludwig, Köln/Ankauf 1954, © 2018, ProLitteris, Zurich

 

Max Beckmann in mostra al Museo d'arte di Mendrisio

Grazie al sostegno della famiglia e al contributo di Siegfried Gohr, tra i massimi studiosi dell’artista,  daranno modo di riscoprire i principali capitoli dell’opera di questo maestro unico e di rivisitare il suo percorso artistico attraverso tutte le tecniche da lui utilizzate.

Max Beckmann è, insieme a Pablo Picasso ed Henri Matisse, uno dei massimi Maestri dell’arte moderna. Con loro figura nelle sale dei più importanti musei del mondo. Nonostante la sua maestria pittorica, plastica e grafica, le sue opere - inquietanti, enigmatiche e sensuali - continuano a essere una sfida per l’osservatore. Tuttavia, incredibilmente, la sua opera non è conosciuta in ambito culturale italiano: l’unica mostra degna di nota si tenne nel 1996 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.

30 dipinti, 15 acquarelli, 80 grafiche e 3 sculture presentati dal 28 ottobre al 27 gennaio 2019 nella grande mostra antologica realizzata dal Museo d’arte Mendrisio - grazie al sostegno della famiglia e al contributo di Siegfried Gohr, tra i massimi studiosi dell’artista -  daranno modo non solo di riscoprire, finalmente, i principali capitoli dell’opera di questo maestro unico, ma di rivisitare il suo percorso artistico attraverso tutte le tecniche da lui utilizzate. Sarà, tra l’altro, una occasione rara per poter ammirare buona parte della sua eccezionale produzione grafica, elaborata principalmente tra il 1917 e il 1925 e dopo la Seconda Guerra Mondiale, decisiva sulla base di una nuova idea dello spazio nell’elaborazione del linguaggio maturo dell’artista, tra sogno e realtà.

Max Beckmann ha toccato, nella sua parabola, grandi vette e conosciuto fasi di abissale declino. Nato a Lipsia nel 1884, nel 1899 entra all’Accademia di Weimar, dove rimane fino al 1903. Nel 1906 si unisce alla Secessione a Berlino, dove vive fino al 1915. Raggiunge precocemente la celebrità con una pittura ancora legata a uno stile tradizionale e tardo-impressionista. Il profondo shock fisico e psichico causato dalla Prima Guerra mondiale lo spinge però al confronto con la pittura modernista, soprattutto francese. Trasferitosi a Francoforte, giunge di nuovo alla celebrità durante gli anni Venti, ma già nel 1933 i nazionalsocialisti lo costringono a lasciare l’incarico di insegnamento e ben presto ricade nell’anonimità. Nel 1937, dopo che la sua arte viene marchiata come “degenerata”, sceglie senza esitazione l’esilio, dapprima in Olanda e in seguito negli Stati Uniti, dove si trasferisce definitivamente nel 1947. Negli anni Trenta e Quaranta realizza, oltre a paesaggi e nature morte, i celebri autoritratti e quadri a tema mitologico e biblico. La sua epoca e la sua vita, compresa tra fama e marginalità, trovano espressione in opere impressionanti, spesso enigmatiche e cariche di simboli, caratterizzate da grande sicurezza nell’uso del colore.

Gli ultimi anni americani gli apportano una rinnovata celebrità e vedono il suo stile evolvere verso una maggiore sintesi, con l’uso di colori più intensi. Max Beckmann muore improvvisamente nel 1950 nel Central Park, mentre si reca ad ammirare una sua opera esposta al Metropolitan Museum di New York.

L’artista amava il sud dell'Europa. Durante molti mesi estivi ha viaggiato in Italia e in Francia, sulla costa mediterranea. Amava le sue spiagge e si è lasciato ispirare dal suo paesaggio: dal mare, dalla vegetazione e dalla cucina mediterranea nella realizzazione di dipinti che irradiano serenità e gioia di vivere. Il lavoro di Beckmann non è stato, però, ancora messo in giusto valore nei paesi del Sud. 

Di recente, il curatore della mostra Gohr in un libro che sarà edito parallelamente alla mostra di Mendrisio, si è soffermato su alcuni elementi centrali della sua opera, quali gli specchi, gli strumenti musicali, i libri, i fiori e le piante, essenziali per mettere in evidenza la forma e il pensiero dell’artista. Si tratta di un approccio del tutto inedito. Contrariamente ad altri studi che hanno sottolineato i riferimenti alla teosofia, alla letteratura e alla storia politica, Gohr parte da oggetti comuni presenti nei dipinti o nei lavori su carta per indagarne il senso e il significato. Mostra e catalogo consentono di capire come ogni elemento, anche quello apparentemente più banale, abbia in verità un significato profondo nell’arte beckmanniana e faccia parte di un complesso di simboli.

Beckmann ha conferito nuova vita alle tradizionali categorie dell’arte: alle nature morte, alle scene in interni, al paesaggio, al ritratto. Soprattutto gli autoritratti costituiscono un’impressionante testimonianza biografica e storica contemporanea, mentre la parte complessa del suo lavoro è costituita da invenzioni di stampo mitologico e allegorico, che spesso si presentano come particolarmente enigmatiche.

 

Tra gli artisti del XX secolo, Max Beckmann è uno di quelli che più ha intensamente vissuto, sentito e sofferto il proprio tempo. La fama, l'esilio, l'ostracismo, e poi un nuovo apprezzamento nel corso degli ultimi anni della sua vita, rispecchiano il destino dell'arte moderna e dei suoi creatori nella prima metà del secolo. 

 

 

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 Gubbio, Festa dei Ceri, 1976, © Gianni Berengo Gardin/Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia

 

 Gianni Berengo Gardin in mostra all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi

Fêtes. Bals, rites, et célébrations à travers l’Italie

In occasione della settimana della fotografia “PhotoSaintGermain” sarà inaugurata martedì 6 novembre alle 18 all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi la mostra del maestro della fotografia italiana Gianni Berengo Gardin, curata da Giulia Cogoli e realizzata per il festival Pistoia - Dialoghi sull’uomo.

L’esposizione (dal 7 novembre al 6 dicembre – ingresso libero) riunisce 60 fotografie in bianco e nero realizzate tra il 1957 e il 2009, molte delle quali inedite, dedicate alla cultura popolare italiana. Una mostra che diviene narrazione di un’Italia “in festa”, dove ognuno celebra la propria cultura e la propria storia con riti vecchi e nuovi: un affascinante mondo popolato di bambini, di zingari, di anziane o giovani signore vestite per la festa e di danzatori di ogni età. «Un piccolo e meraviglioso atlante fotografico delle feste popolari in Italia, che racconta di costumi e tradizioni antiche e meticce di tutte le regioni d’Italia, con uno sguardo dal taglio etnografico, ma allo stesso tempo di intenerita curiosità» afferma Giulia Cogoli. 

«Sono stato attratto dalle diverse manifestazioni della cultura popolare fino dai miei esordi - spiega il fotografo - il mio lavoro mi ha portato a viaggiare per tutta l’Italia e sono venuto così in contatto con il ricchissimo patrimonio di tradizioni, riti e costumi che caratterizza il nostro paese. Per me fotografare è stato anche un modo per essere partecipe di questi momenti straordinari, densi di significato - aggiunge Berengo Gardin - Credo che queste fotografie abbiano oggi un valore di testimonianza, documentano mondi in alcuni casi ormai scomparsi, in altri contaminati da altre forme di partecipazione che li hanno mutati per sempre».

Gianni Berengo Gardin è nato a Santa Margherita Ligure nel 1930. Dopo essersi trasferito a Milano si è dedicato principalmente alla fotografia di reportage, all’indagine sociale, alla documentazione di architettura e alla descrizione ambientale. Ha collaborato a lungo con il Touring Club Italiano - per il quale ha realizzato una serie di volumi sull’Italia e sui Paesi europei - e con l’Istituto Geografico De Agostini. Nel 1995 ha vinto il Leica Oskar Barnack Award. È molto impegnato nella pubblicazione di libri (oltre 250) e nel settore delle mostre (oltre 200 personali). Contrasto ha pubblicato di recente Il libro dei libri (2014) che raccoglie tutti i suoi volumi; Manicomi (2015); Venezia e le grandi navi (2015) e Vera fotografia (2016). L’intera produzione e l’archivio di Gianni Berengo Gardin sono gestiti da Fondazione Forma per la Fotografia di Milano.

 

Istituto Italiano di Cultura di Parigi, 50 rue de Varenne, Parigi. Entrata libera dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 18 e in serata durante gli eventi dell’Istituto italiano di cultura.

Inaugurazione martedì 6 novembre alle ore 18,30.

Progetto realizzato dall’Istituto Italiano di Cultura di Parigi in collaborazione con Pistoia -Dialoghi sull’uomo, Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, Contrasto, PhotoSaintGermain.

 

 

 

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 Mike Nelson. L’Atteso

L'artista realizza un nuovo progetto, pensato appositamente per gli spazi delle Officine Grandi Riparazioni.

Dal 2 novembre 2018 al 3 febbraio 2019 le OGR – Officine Grandi Riparazioni di Torino presentano L’Atteso, la prima mostra personale in un’istituzione italiana dell’artista inglese Mike Nelson, a cura di Samuele Piazza. Il 2 novembre, anticipando la Notte delle Arti Contemporanee, le OGR proporranno un opening gratuito per il pubblico dalle 19.00 alle 22.00.

Mike Nelson – che ha rappresentato la Gran Bretagna alla Biennale di Venezia del 2011 ed è stato due volte candidato al Turner Prize – realizza un nuovo progetto, pensato appositamente per gli spazi delle Officine Grandi Riparazioni. 

Il Binario 1 appare completamente trasformato in un “luogo altro” da un’installazione su larga scala che va a occupare l’intera navata con un intervento poderoso ma, allo stesso tempo, quasi intimo: lo spazio ex-industriale è reso irriconoscibile, generando un effetto straniante in cui il visitatore è chiamato a trovare il suo percorso personale, a esplorare liberamente gli elementi presenti alla ricerca degli indizi necessari per costruire la propria individuale narrazione. Come preannunciato dal titolo, un clima sospeso ed enigmatico caratterizza l’installazione, formata da un paesaggio che sembra uscito dalle immagini di un film e in cui diverse memorie e stratificazioni materiali creano una narrazione aperta a molteplici letture. Emergono le tematiche del viaggio (metaforico e reale) e della mobilità, entrambe care all’artista: una sorta di fil rouge di questo racconto che, nella cornice delle OGR, dove per un secolo si sono riparati i treni, trova una sponda ottimale per amplificare il senso di un’opera lasciata volutamente priva di chiavi di lettura predefinite.

Primo tassello di questo percorso è una piccola scultura, Untitled (intimate sculpture for a public space) (2013) che accoglie il visitatore nel foyer delle Officine Nord: un sacco a pelo posizionato a terra, racchiuso in una teca, omaggio alla memoria di un amico e collaboratore, Erlend Williamson, artista e appassionato scalatore che con Mike Nelson aveva condiviso interessi e lunghi periodi di ricerca, mancato durante una scalata mentre stava viaggiando per raggiungere l’amico.

La scultura, con la sua presenza intima e discreta fa da contraltare all’intervento visibile attraverso la vetrata d’accesso al Binario 1: la soglia trasparente permette di vedere un ammasso di detriti e materiali di risulta, un cumulo terroso frutto di demolizioni che sembra premere sulla parete a vetri.

Un’enorme struttura in legno, simile a una impalcatura, in un primo momento visibile solo dal retro, conduce all’interno dello spazio. La scultura sembra un grande cartellone pubblicitario o lo schermo di un drive-in: è necessario oltrepassarla per trovarsi definitivamente all’interno di un ambiente buio dove, tra una distesa di macerie pressate, stazionano una ventina di automobili parcheggiate, coperte di polvere, in stato di abbandono. Non è chiaro perché le macchine siano in quello stato, ma diversi oggetti che raccontano le memorie dei loro possessori sono ancora distribuiti tra i sedili e portano traccia del passato del luogo e di questi personaggi. Solo poche fonti luminose e sonore guidano l’esplorazione dei visitatori, chiamati a interagire con gli elementi di questa complessa installazione, immersi in una sospensione spaziale e temporale che rende indefiniti i contorni esistenziali, prima ancora che visivi.

L’intervento di Mike Nelson per le OGR unisce fonti di ispirazione diverse in un nuovo lavoro, in cui le diverse suggestioni si ampliano in un continuo gioco di rimandi: l’ammasso di detriti che forma il pavimento su cui i visitatori si trovano a camminare ricorda un intervento di Land Art alla De Maria, trasformando però il suolo dell’installazione nella terra battuta di un parcheggio, in cui risultano ben visibili i resti di vecchie costruzioni, frammenti di piastrelle o materiali di risulta.

Una collisione di temporalità diverse sembra caratterizzare l’installazione: un passato recente e una dimensione quasi archeologica (o potrebbe trattarsi di un prossimo futuro?), si uniscono materializzando un presente distopico: le automobili, scelte tra i modelli ancora ritrovabili nella vita quotidiana, si uniscono all’idea di precarietà che le macerie veicolano, all’ambiguità tra una demolizione da poco avvenuta, un’apocalisse in atto e una ricostruzione possibile. Nelson ancora una volta interviene con una trasformazione radicale dello spazio che con lo spazio dialoga, creando un’atmosfera di attesa e di sospensione – che richiama alla memoria grandi maestri del cinema come Michelangelo Antonioni e Dario Argento, o artisti del calibro di Ed Kienholz, tutti fonti della nuova opera – creando un limbo fisico ed emotivo carico di fascino e complessità.

L’idea di trasformazione, cardine della programmazione di OGR, si materializza dunque in una struttura narrativa che emerge dalle modifiche dell’architettura in relazione alla storia dell’edificio e agli oggetti attentamente selezionati dall’artista e da lui trasformati in sculture nello spazio, per creare un’articolata stratificazione di senso e un percorso con molteplici livelli di lettura, dal viaggio onirico alla fantascienza. 

 

 

 

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Omaggio a Franco Beraldo

La Fondazione Musei Civici di Venezia, in linea con la propria proposta culturale che intende valorizzare gli artisti del territorio metropolitano rende omaggio all’arte di Franco Beraldo

La Fondazione Musei Civici di Venezia, in linea con la propria proposta culturale che intende valorizzare gli artisti del territorio metropolitano - in collaborazione con la Città di Venezia - rende omaggio all’arte di Franco Beraldo (Meolo, 1944), con una mostra ospitata al Centro Culturale Candiani di Mestre dal 27 ottobre all’11 novembre.

Del grande maestro veneto, già vincitore del Premio Burano nel 1981, il Centro Candiani - sempre più ‘fulcro’ di una nuova rete di percorsi artistico-culturali di carattere nazionale e internazionale che sta trovando in Mestre terreno fertile – presenta, nella città che ha visto i suoi natali artistici, 62 opere tra dipinti, Haiku, disegni su carta, vasi e piastre in vetro di Murano, tutte realizzate da Franco Beraldo tra il 2004 e il 2018.

Dall’acquerello alla sperimentazione con l’affresco, quello intrapreso dall’artista – fra gli esponenti di spicco di quel fermento intellettuale che da sempre ha caratterizzato la città di Mestre e il territorio metropolitano - è un continuo confronto con le infinite e varie potenzialità del colore.
‘Ed è proprio quest’ultimo, nella terza fase della sua produzione – come ricorda in catalogo Gabriella Belli, curatrice dell’esposizione insieme a Elisabetta Barisoni - a frantumare la linea e il contorno, per diventare protagonista, libero e assoluto, di un racconto compositivo che fa propri i più disparati supporti materici, dalla tela, ai lacerti di carta, fino al vetro.’

Nelle opere presentate al Centro Candiani di Mestre, lo stile dell’artista dimostra quanto sia infinita la via della Storia per i veri maestri. Dopo aver sperimentato una pittura più descrittiva, dove il soggetto è ancora circoscritto all’interno della composizione, dai primi anni Duemila, Beraldo dona dunque piena libertà al colore, che invade e travolge la tela, con le linee e i contorni.

Come negli acquerelli degli anni ottanta, negli Haiku permane una dimensione quasi 'zen' di procedimento a togliere, per arrivare all’essenziale di un’arte meditativa.
Il lavoro continuo di ricerca attraverso le tecniche, i materiali e le possibilità espressive dell’arte del ‘900, portano Beraldo a misurarsi anche con un oggetto di grande tradizione come il libro d’artista, che lui interpreta e svolge come un racconto tridimensionale.
Tra le più recenti sperimentazioni anche la ricca produzione vetraria.
Secondo l’autore, il vetro è il materiale ‘magico’ per eccellenza; vive solo con la luce, al buio diventa opaco e si spegne, un po’ come l’essere umano.
Beraldo si muove ormai con sicurezza tra giochi di trasparenze, arrivando a un risultato mai improvvisato, che ha radici ben consolidate nello studio e nell’osservazione dei maestri del nostro passato recente.

La mostra, accompagnata da un bel catalogo edito da Grafiche Battivelli (Conegliano, 2018), vuole rappresentare una grande testimonianza della vitalità della produzione di questo artista, celebrato da numerose e importanti esposizioni negli ultimi trent’anni.

 

 

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Giulio Paolini - Del bello ideale

Una mostra dedicata a uno dei massimi esponenti dell’arte concettuale, con interventi della scenografa Margherita Palli, organizzata in stretta collaborazione con l’artista, a cura di Francesco Stocchi

Dal 26 ottobre al 10 febbraio 2019 la Fondazione Carriero presenta Giulio Paolini. Del bello ideale, a cura di Francesco Stocchi, mostra dedicata a uno dei massimi esponenti dell’arte concettuale, con interventi della scenografa Margherita Palli, organizzata in stretta collaborazione con l’artista.

Dopo la mostra Sol LeWitt. Between the Lines dedicata all’esplorazione dei confini dell’artista americano in relazione all’architettura, la Fondazione Carriero prosegue il suo percorso di indagine e approfondimento dell’arte concettuale analizzando l’opera di Giulio Paolini, suo indiscusso pioniere nel nostro Paese. Attraverso una nutrita selezione di lavori, scelti e allestiti dal curatore insieme all’artista torinese, Del bello ideale ripercorre l’intero arco dei suoi 57 anni di carriera, esponendo capisaldi della sua produzione come Senza titolo (1961), Monogramma (1965), AB 3 (1966), Nécessaire (1968), Controfigura (critica del punto di vista) (1981), alcuni dei suoi celebri autoritratti, fino a tre nuove opere appositamente concepite per l’occasione. 

Paolini ha risposto all’invito della Fondazione Carriero facendosi coinvolgere in prima persona nella realizzazione della mostra e accettando di cimentarsi in un esercizio introspettivo, in un processo di lettura dall’interno, e in alcuni casi di rilettura, della sua produzione. Il dialogo con il curatore Francesco Stocchi ha dato vita a un percorso espositivo non cronologico, scandito da nuclei tematici che si articolano nello spazio entrando in relazione con l’architettura dell’edificio, consentendo al visitatore di mettere a fuoco la poetica di Paolini e di semplificarne la comprensione. Attraverso questo esercizio, la mostra “scompone” l’opera di Paolini, la seziona adottando lo stesso approccio teorico e formale utilizzato dall’artista nei suoi lavori e nel suo modo di affrontare l’arte. 

Tre sono i nuclei tematici individuati come punti di riferimento nel percorso espositivo, presentati singolarmente, uno per ogni piano della Fondazione, ma mantenendo una relazione reciproca e costante tra loro. Al piano terra l’allestimento ruota attorno al tema del Ritratto e Autoritratto, vero e proprio topos della storia dell’arte occidentale e fulcro della poetica di Paolini, che fin dall’inizio degli anni Sessanta si è cimentato in modo fortemente personale con l’analisi di questa tematica, distillandola fino ad arrivare alla sottrazione dell’autore nella sua opera. La sezione al primo piano si intitola In superficie e sviluppa la relazione con il tema della prospettiva nelle sue varie declinazioni, dall’indagine sulla linea alla simbologia dell’orizzonte fino all’uso della specularità, della tautologia e della ripetizione come strumenti di analisi dello spazio e del tempo. Infine, la sala rococò del secondo piano fa da cornice a Uno di due, che presenta una selezione di lavori che indagano il rapporto tra il mito e la classicità nell’universo artistico di Paolini, emblemi di quella bellezza ideale che, nel polarizzare gli sguardi con la sua armonia, crea una distanza apparentemente incolmabile tra opera d’arte e osservatore.

In questo viaggio introspettivo su più livelli, Paolini assume la veste dell’archeologo, dello studioso che abbandona la dimensione nostalgica del guardare al (proprio) passato per analizzarlo con nuova consapevolezza, scavando nella psiche e nella storia dell’arte fino ad arrivare alle radici del suo pensiero. Un viaggio nella categoria filosofica del tempo, che evidenzia come la sua ricerca non si collochi su una linea di evoluzione diacronica, per tappe progressive – dal passato al presente al futuro – ma sia piuttosto ascrivibile a una dimensione sincronica, a un presente continuo, fatto di una costante variazione sul tema a partire dalla sua prima opera. Proprio come se il suo lavoro fosse, alla fine, un’unica opera continua.

Come suggerisce lo stesso titolo della mostra – Del bello ideale – il lavoro di Paolini tende a una dimensione “ideale”, in un certo senso assoluta o utopica, che può essere percepita come criptica, di non facile lettura per i non addetti ai lavori. La scenografa Margherita Palli è stata invitata a entrare in dialogo con il corpus di opere dell’artista, creando degli interventi che “mettano in scena” i nuclei tematici della mostra e che, attingendo alle stesse fonti di Paolini e ad alcune opere della sua collezione privata, offrano ai visitatori la possibilità di entrare nel suo mondo e di partecipare dall’interno a questo viaggio introspettivo. In particolare, Margherita Palli si è confrontata con il tema del ritratto e autoritratto al piano terra – trasformando una delle sale della Fondazione in una Wunderkammer ispirata allo studiolo di Federico da Montefeltro – e con il tema della prospettiva al primo piano – riproducendo, in forma onirica su una superficie interamente disegnata a mano, i principi chiave del trattato sulla prospettiva dell’architetto e artista fiammingo Hans Vredeman de Vries, testo di riferimento nella poetica di Paolini.

Gli interventi scenografici di Margherita Palli si pongono in netto contrasto con le sale rarefatte e gli ambienti bianchi che ospitano le opere dell’artista, contrappunti visivi che sottolineano l’interesse che Paolini ha sempre portato nei confronti dell’aspetto scenografico di una mostra, e verso il teatro più in generale, e che ne rivelano l’essenza di artista la cui tavolozza è la storia dell'arte e la cui cultura è profondamente italiana

Giulio Paolini. Del bello ideale si inserisce coerentemente nel percorso iniziato dalla Fondazione Carriero con imaginarii (settembre 2015), FONTANA • LEONCILLO Forma della materia (aprile 2016), FASI LUNARI (ottobre 2016), PASCALI SCIAMANO (marzo 2017) e SOL LEWITT. BETWEEN THE LINES (novembre 2017-giugno 2018, co-curata con Rem Koolhaas) mostre curate da Francesco Stocchi il cui punto cardine è l’approccio dialogico e la tensione costante verso ricerca e sperimentazione.

La mostra è resa possibile grazie alla stretta collaborazione con Giulio Paolini e la Fondazione Giulio e Anna Paolini e a prestiti provenienti da prestigiose istituzioni pubbliche e importanti collezioni private. La mostra sarà accompagnata da un catalogo (italiano e inglese) edito da König Books, curato da Francesco Stocchi, che raccoglierà le immagini delle opere allestite negli spazi della Fondazione Carriero, con contributi tra gli altri di Giulio Paolini e di Francesco Stocchi