Mostre

 

 

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William Wegman, Newsworthy, 2004, Polaroid a colori, Proprietà dell’artista © William Wegman.


William Wegman - Being Human

Il MASI, in collaborazione con la Foundation for the Exhibition of Photography, presenta una mostra dedicata al celebre fotografo americano William Wegman.

Il MASI, in collaborazione con la Foundation for the Exhibition of Photography, presenta una mostra dedicata al celebre fotografo americano William Wegman. Wegman, che occupa una posizione particolare nell’arte contemporanea, ha sviluppato il suo linguaggio fotografico sul rapporto con i suoi cani Weimaraner, abbinando allo sguardo documentaristico un’attenta scenografia e un sottile senso umoristico. L'allestimento visibile dal 8 settembre al 6 gennaio conta un centinaio di opere che mostrano l’abilità del fotografo a creare immagini che sono allo stesso tempo divertenti, impressionanti e surrealiste.

William Wegman, eclettico maestro dell’arte contemporanea americana, è un rinomato e versatile artista, capace di destreggiarsi abilmente tra pittura, disegno, fotografia, film, video, libri e performances. Wegman è diventato noto nel panorama artistico mondiale per le serie di immagini con protagonisti i suoi cani. A partire dagli anni Settanta, dall’incontro con il suo primo Weimaraner – Man Ray -, il fotografo ha fatto degli esemplari di questa razza il soggetto principale dei suoi scatti, rappresentando – attraverso queste muse sui generis – personaggi, tendenze di moda e movimenti della storia dell’arte con ingegno e ironia.

Man Ray, Fay Ray, Penny, Bobbin, Chip, Chundo, Crooky e diverse generazioni di loro cuccioli sono gli assoluti protagonisti di Polaroid di grande formato: istantanee in un unico esemplare, non ritoccate, che esaltano tanto la spontaneità dei soggetti, quanto l’abilità del fotografo e permettono di apprezzare l’eccezionale sintonia fra l’artista e i suoi cani. Ogni scatto si può considerare il risultato di una collaborazione, prima ancora che la creazione di un unico artefice. Being Human ripercorre l’evoluzione di questa singolare relazione artistica lunga trent’anni, mettendo in scena una sorta di specchio della natura umana.

Il percorso espositivo si compone di novanta Polaroid e una decina di stampe ai pigmenti selezionate da William A. Ewing, curatore della mostra e già direttore del Musée de l’Elysée di Losanna, in stretta collaborazione con l’artista e si suddivide in capitoli, ognuno dei quali raccoglie opere di soggetti affini o collegate da allusioni visive analoghe. Organizzata dalla Foundation for Exhibition of Photography, Minneapolis/New York/Paris/Lausanne, la mostra ha inaugurato ai "Rencontres d'Arles" nell'estate 2018, evento che ha segnato l'inizio di un tour di quattro anni che comprende tappe in Australia, Nuova Zelanda, Asia ed Europa. La mostra a Lugano è la prima tappa europea.

L'artista
William Wegman nasce nel 1943 a Holyoke, Massachusetts. Dopo aver terminato gli studi in pittura, a partire dalla fine degli anni Sessanta, intraprende una carriera di artista concettuale partecipando ad alcune fra le più significative esposizioni di quegli anni come When Attitudes Become Form (1969) e Documenta V (1972). Il lavoro di Wegman è stato esposto in musei e gallerie di livello internazionale tra cui, tra i molti, Walker Art Center, Minneapolis; Kunstmuseum Luzern, Lucerna; Centre Pompidou, Parigi; Whitney Museum of American Art, New York; Metropolitan Museum of Art, New York; Brooklyn Museum of Art, Brooklyn; Kunsthalle Bern, Berna. È inoltre regolarmente presentato in riviste come Interfunktionen, Artforum e Avalanche.

Nel corso degli anni Wegman ha realizzato video e film per Saturday Night Live e Nickelodeon e i suoi video per Sesame Street sono apparsi regolarmente a partire dal 1989. Nel 1995, il film The Hardly Boys è stato proiettato al Sundance Film Festival. Wegman è stato inoltre incaricato di creare immagini per una vasta gamma di progetti tra cui una campagna di moda per Acne, banner per il Metropolitan Opera e copertine di numerose riviste tra cui The New Yorker e, più recentemente, Wallpaper. È infine apparso su The Tonight Show, David Letterman Show e Colbert Report. William Wegman vive a New York e nel Maine e continua a dipingere, disegnare, girare video e fotografare i suoi cani Flo e Topper.

Il catalogo
Nell'autunno 2017 Chronicle/Thames e Hudson pubblica Being Human, una raccolta fotografica su larga scala da cui prende ispirazione la mostra. L'antologia, a cura di William A. Ewing, è disponibile in edizione inglese (Chronicle / Thames e Hudson), francese (Textuel) e tedesca (Schirmel). 

  

 

 

Giuseppe Uncini Cementoarmato n.31 1962. Collezione Permanente MACTE

Giuseppe Uncini Cementoarmato n.31, 1962. Collezione Permanente MACTE. Courtesy MACTE.

GIUSEPPE UNCINI - TERMOLI 2019  a cura di Arianna Rosica e Gianluca Riccio

Primo progetto espositivo della programmazione per il biennio 2019 – 2020 del neonato museo molisano, inaugurato lo scorso aprile con un nuovo allestimento curato da Laura Cherubini e Arianna Rosica della collezione dello storico Premio Termoli.

Dal 2 agosto 2019 al 12 gennaio 2020 il MACTE – Museo di Arte Contemporanea di Termoli presenta la mostra Giuseppe Uncini / Termoli 2019, a cura di Arianna Rosica e Gianluca Riccio.
Si tratta del primo progetto espositivo della programmazione per il biennio 2019 – 2020 del neonato museo molisano, inaugurato lo scorso aprile con un nuovo allestimento curato da Laura Cherubini e Arianna Rosica della collezione dello storico Premio Termoli.
 
In continuità con il progetto di riscoperta e rilettura scientifica delle oltre 470 opere appartenenti al patrimonio del Premio Termoli avviato dal MACTE al momento della sua apertura, la mostra dedicata a Giuseppe Uncini (Fabriano, 1929 – Trevi, 2008) si configura come la prima di una serie di esposizioni personali dedicate ai principali esponenti della ricerca artistica italiana che nel corso del tempo hanno partecipato al Premio – istituito nel 1955 – generando opere che sono entrate a far parte del patrimonio del Comune molisano. Seguendo tali linee guida, l’obiettivo che il MACTE intende perseguire a partire dalla mostra Giuseppe Uncini / Termoli 2019 è quello di valorizzare la storia del Premio Termoli, rendendo la Collezione Permanente del Museo luogo e punto di partenza per un dialogo e un confronto tra artisti di diverse generazioni, grazie a un programma espositivo che, accanto agli approfondimenti sui maestri dell’arte italiana degli anni Sessanta e Settanta, contempli la realizzazione di una serie di mostre dedicate ad artisti contemporanei, aperte a linguaggi differenti, dal design all’architettura, dalla video arte alla fotografia.    
 
La mostra Giuseppe Uncini / Termoli 2019 raccoglie undici opere appartenenti ai diversi periodi della ricerca del maestro marchigiano, dalle sperimentazioni dei primi anni Sessanta, caratterizzate dall’uso del cemento armato come elemento centrale della sua scultura, alla parentesi pittorica connessa alla riflessione sulle strutture primarie e sull’ombra della metà degli anni Settanta, sino alle soluzioni più mature degli anni a cavallo tra Novanta e Duemila, in cui il rapporto con l’architettura e con lo spazio – espositivo e ambientale – è andato definendosi come fulcro della sua produzione.
 
Le opere di Uncini selezionate dai due curatori, di diverse dimensioni e tecniche – dalle grandi sculture appartenenti al ciclo degli Spazi-ferro e degli Spazi-cemento, alle inedite e originali sculture in ceramica e ferro dei primi anni Duemila – saranno distribuite all’interno della grande sala centrale del MACTE in un percorso espositivo circolare progettato dal designer Andrea Anastasio che, oltre a proporsi come un tragitto punteggiato da opere emblematiche dei diversi cicli di ricerca dell’artista di Fabriano, sarà in grado di restituire allo spettatore tutta la duttilità creativa di Uncini assieme alla sua capacità di adottare, all’interno di una continuità formale e poetica, soluzioni linguistiche e materiali continuamente differenti.
 
In occasione della mostra verrà pubblicato un catalogo, a cura di Arianna Rosica e Gianluca Riccio. La pubblicazione verrà presentata in autunno all’interno del programma di appuntamenti MACTE incontri, che con cadenza mensile animeranno la mostra per tutta la sua durata.

 

 

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Nanda Vigo, Trigger of the Space (2018), ph Marco Poma

 

Nanda Vigo. Light Project a Palazzo Reale

La mostra esplora nella programmazione estiva l’arte contemporanea, approfondendo e valorizzando il lavoro di maestri dell’arte italiana dal secondo dopoguerra ad oggi.

Dal 23 luglio al 29 settembre 2019, al primo piano di Palazzo Reale a Milano, apre al pubblico la mostra Nanda Vigo. Light Project, a cura di Marco Meneguzzo.

Promossa dal Comune di Milano | Cultura, Palazzo Reale, in collaborazione con l’Archivio Nanda Vigo e Donatella Volonté, la mostra si inserisce nel percorso con il quale Palazzo Reale, per il quarto anno consecutivo, esplora nella programmazione estiva l’arte contemporanea, approfondendo e valorizzando il lavoro di maestri dell’arte italiana dal secondo dopoguerra ad oggi e il rapporto che hanno avuto con la città di Milano dove hanno vissuto, creato ed elaborato la propria ricerca, come nel caso specifico di Nanda Vigo.
Light Project è infatti la prima retrospettiva antologica dedicata da un’istituzione italiana a questa artista e architetto milanese che ha influenzato la scena artistica italiana ed europea degli ultimi cinquant’anni: attraverso l’esposizione di circa ottanta opere - tra progetti, sculture e installazioni - la mostra racconta l’eccezionale percorso di ricerca di una figura di assoluto rilievo nel panorama europeo, dagli esordi alla fine degli anni Cinquanta sino alle esperienze più attuali.

Protagonista del clima culturale milanese degli anni Sessanta, Nanda Vigo (Milano, 1936) inizia a realizzare i suoi Cronotopi dal 1962, in sintonia con lo spirito di ZERO, gruppo transnazionale di artisti tedeschi, olandesi, francesi, belgi, svizzeri e italiani al quale prese parte.

Partecipe delle avanguardie e dei gruppi dei primi anni Sessanta, Nanda Vigo elabora una personale ricerca incentrata sulla luce, la trasparenza, l’immaterialità, che devono costituire l’opera e lo stesso ambiente abitato dall’essere umano, e di cui i “cronotopi” sono la concretizzazione artistica. Uno chassis metallico racchiude vetri industriali, talvolta illuminati da neon, attraverso i quali la luce penetra e si manifesta allo sguardo, metafora della leggerezza, della mutazione, dell’immaterialità spirituale dell’arte e della sua percezione. Presto prendono le forme di veri e propri ambienti (alcuni realizzati in collaborazione con Lucio Fontana) e di specchi inclinati e tagliati in modo da riflettere una impensata visione della realtà, mentre continua il lavoro di progettazione di design e di architettura (famosa la sua collaborazione con Gio Ponti per la Casa sotto la foglia, a Malo, del 1965, e la realizzazione del Museo Remo Brindisi a Lido di Spina del 1967).
Gli anni Ottanta sono caratterizzati dall’adesione ai concetti del Postmodernismo, mentre la produzione successiva torna alla seducente algidità del neon, delle luci radianti e diffuse, delle forme semplici e dinamiche.

In mostra saranno esposte opere e progetti che abbracciano l’intero arco di produzione dell’artista: fulcro del percorso espositivo sarà un affascinante ambiente cronotopico, che occuperà l’intera stanza degli specchi.
Questo ambiente, in particolare, esprime la quintessenza del modo di intendere l’arte di Nanda Vigo: una situazione esistenziale che consenta di vivere esperienze trascendenti, andando oltre la materialità del quotidiano per riuscire a percepire fisicamente - per quanto possibile - una realtà più alta, una sintonia universale attraverso la contemplazione, la smaterializzazione, la comunione con il “tutto”.

In occasione della mostra sarà pubblicata una monografia sull’opera di Nanda Vigo, a cura di Marco Meneguzzo, edita da Silvana Editoriale, che raccoglierà la più esaustiva antologia critica sull’artista realizzata fino a ora.

 

 

 

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Tattoo. Storie sulla pelle. La nuova mostra temporanea al Museo M9

La mostra è stata curata da Luca Beatrice e Alessandra Castellani, con la collaborazione di Luisa Gnecchi Ruscone e Jurate Piacenti, l’esposizione esplora l'universo dei tatuaggi dal punto di vista antropologico, storico, artistico e sociale.

M9 - Museo del ’900 presenta la mostra Tattoo. Storie sulla pelle, organizzata in collaborazione con la Fondazione Torino Musei e allestita nel grande spazio del terzo piano dedicato agli eventi temporanei da venerdì 5 luglio a domenica 17 novembre 2019.
Curata da Luca Beatrice e Alessandra Castellani, con la collaborazione di Luisa Gnecchi Ruscone e Jurate Piacenti, l’esposizione esplora l'universo dei tatuaggi dal punto di vista antropologico, storico, artistico e sociale.

La mostra nasce dal lavoro di studio e ricerca sviluppato nel corso dello scorso anno dalla Fondazione Torino Musei al MAO – Museo d’Arte Orientale, ed è stato ampliato e aggiornato con contributi inediti.

È l’occasione per un viaggio nel tempo a partire dalle immagini dei tatuaggi rinvenuti sulle mummie per comprendere il tema del tatuaggio nell’antichità, marchio degli sconfitti (sia schiavi che fuori legge) ma anche elemento per identificare presunti poteri taumaturgici e curativi. La pratica del tatuaggio non è mai scomparsa dal Vecchio continente e l’aura di repulsione, estraneità e fascinazione nei suoi confronti è stata ripresa e ampliata nel Settecento, quando i navigatori europei che raggiungono il Sud-est asiatico e l’Oceano Pacifico entrano in contatto con popoli che praticano in maniera estensiva il tatuaggio: la parola “tattoo” ha infatti origine polinesiana.

L’idea della condizione “selvaggia” del tatuaggio è acquisita nell’Ottocento dall’antropologo Cesare Lombroso, che riconduce la condizione dei criminali tatuati a quella dei cosiddetti primitivi, collocando per la prima volta in ambito scientifico questa pratica descritta da viaggiatori e esploratori.
Il millenario percorso del tattoo continua nel Novecento, quando nella seconda metà del secolo raggiunge una notevole popolarità e comincia ad essere praticato e interpretato prima come forma simbolica di ribellione infine come segno diffuso soprattutto tra i giovani, tanto da diventare un vero e proprio fenomeno di massa, che si trasforma in moda intrecciando forme di ricerca sulla rappresentazione di sé.

Uno spazio è dedicato ai tatuatori contemporanei con lavori noti per il ruolo cruciale nella scena contemporanea e nella diffusione della cultura del tatuaggio: da Tin-Tin, a Filip Leu e a Horiyoshi III. A questi sono affiancati i lavori di altri tatuatori sia italiani che stranieri - come Nicolai Lilin e Claudia De Sabe - che costituiscono una ristretta rappresentanza di una numerosa, notevole e mutevole comunità di lavoratori del settore.
Il percorso espositivo presenta anche numerose opere di artisti contemporanei internazionali: il fiammingo Wim Delvoye, che ha tatuato grossi maiali non destinati all’alimentazione; lo spagnolo Santiago Sierra, che ne fa un uso fortemente politico; il messicano Dr. Lakra, che si dedica a minuziosi disegni e interventi di street art; l’austriaca Valie Export e la svedese Mary Coble con temi legati al femminismo; l’italiano Fabio Viale con le sculture in marmo di ispirazione classica, ma vistosamente tatuate. Sono esposte anche fotografie di Catherine Opie, Tobias Zielony, Sergei Vasiliev e tra gli italiani, Plinio Martelli, Oliviero Toscani.

La mostra è affiancata dalle immagini di Tattoo Off, esposizione a cura di Massimiliano Maxx Testa della Venezia International Tattoo Convention, che ha selezionato i più significativi tatuatori internazionali, creatori di nuovi stili, come Alex De Pase per l'iperrealistico, Marco Manzo inventore dell'ornamentale, Moni Marino per il surrealismo di ispirazione pittorica, Silvano Fiato capostipite del realismo black & grey Volko + Simone creatori del trash polka.

Numerosi gli eventi collaterali per mettere a fuoco come il tatuaggio abbia rotto gli schemi nei quali era stato letto ed interpretato per lungo tempo e come oggi riesca a parlare a tutti noi, senza distinzioni, trasformando gli artisti in tatuatori e i tatuatori in artisti.
Il tatuaggio è una pratica che accompagna l’umanità dalla notte dei tempi tanto che troviamo esempi in corpi mummificati in Europa, Asia e Africa. È una modalità di espressione che non è mai stata abbandonata, seppur i significati che ha assunto nel corso dei secoli sono mutati: l’intenso gioco di contaminazioni e scambi tra le diverse culture, tra oriente e occidente, che ha sempre caratterizzato la storia del tatuaggio prosegue oggi in maniera sempre più forte in un mondo oramai globalizzato, in cui gli scambi culturali e commerciali sono intensi e continui. È sempre stato un fenomeno legato a forme di marginalità sociali - secondo la Genesi, il primo tatuato nella storia è Caino -, ma al tempo stesso è una forma d’arte e un grande fenomeno di massa.

Il catalogo è pubblicato da SilvanaEditoriale.

 

 

 

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Salvatore Arancio, Like a Sort of Pompeii in Reverse (dettaglio), 2019, ceramiche smaltate. Courtesy: Casa Museo Jorn / MuDA, Albissola and Semiose Gallery, Paris. Ph Gianluca Anselmo

 

CASA MUSEO JORN   presenta   Salvatore Arancio Like a Sort of Pompeii in Reverse

La mostra è promossa dall’Associazione Amici di Casa Jorn, con il patrocinio del Comune di Albissola Marina e con il generoso supporto di Semiose Gallery, Parigi.

Dall’11 luglio al 22 settembre Casa Museo Jorn presenta la mostra personale di Salvatore Arancio: Like a Sort of Pompeii in Reverse, a cura di Luca Bochicchio, direttore artistico del Museo. La mostra è promossa dall’Associazione Amici di Casa Jorn, con il patrocinio del Comune di Albissola Marina e con il generoso supporto di Semiose Gallery, Parigi.
 
Dopo la partecipazione alla 57. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia (2017) e la mostra personale alla White Chapel di Londra (2018), Salvatore Arancio giunge ad Albissola con un progetto inedito e site specific, pensato e realizzato in situ.
 
Tra il 2017 e il 2019 Arancio ha effettuato numerose visite di ricerca e diversi sopralluoghi a Casa Museo Jorn, affascinato dal labirinto di matrice situazionista che l’artista danese Asger Jorn ha creato tra il 1957 e il 1973 insieme all’amico e assistente Umberto (Berto) Gambetta.
Più di ogni altro aspetto o luogo della casa, Arancio è stato colpito dalle concrezioni polimateriche e pseudo-organiche realizzate da Jorn e Gambetta nel giardino, in cui ha intravisto non soltanto la poesia del gioco inventivo, ma il potenziale immaginifico e creativo di ciò che non si vede.
 
L’artista ha pertanto avviato una ricerca sperimentale, basata sulla modellazione dell’argilla direttamente sulle forme, sulle superfici e sui volumi del giardino, rilevandone plasticamente il negativo e ragionando su ciò che non si vede ma esiste solo in potenza.
Arancio si è concentrato in particolare sui molti elementi di origine incerta (naturale o artificiale) e di paternità ambigua e ironica (Jorn o Gambetta), per instaurare un rapporto di continuità nel discorso avviato da Jorn sulla metamorfosi e sull’immaginazione; un dialogo che si sviluppa a partire dal linguaggio della scultura in ceramica, comune sia a Jorn che ad Arancio, e basato sulla complicità e sulla collaborazione del genius loci: le botteghe artigiane del territorio.
Arancio ha infatti scelto di avvalersi della collaborazione della Nuova Fenice di Barbara Arto per le rifiniture a terzo fuoco, e di quella delle Ceramiche San Giorgio per le smaltature dei pezzi modellati a Casa Jorn. Quest’ultima bottega fu fondata nel 1958 ad Albissola Marina e ancora oggi è guidata da Giovanni Poggi, torniante che nella sua vita ha lavorato con oltre duecento artisti, iniziando proprio con i grandi nomi degli anni Cinquanta e Sessanta presenti ad Albissola (Agenore Fabbri, Lucio Fontana, Asger Jorn, Gianni Dova, Wifredo Lam, Mario Rossello e molti altri). Casa Jorn è intrisa di storie e tracce della collaborazione fra Jorn, Berto e Giovanni Poggi: Arancio ha voluto ricalcare questi gradi di collaborazione tra artista e artigiano.
 
In corso d’opera, durante le frequenti occasioni di confronto fra artista e curatore, è nato il titolo della mostra: Like a Sort of Pompeii in Reverse è infatti una citazione dal testo che Guy Debord scrisse nel 1972 per il libro di Jorn Le Jardin d’Albisola, realizzato da Ezio Gribaudo per le Edizioni d’Arte Fratelli Pozzo di Torino e pubblicato postumo nel 1974.
Arancio propone dunque la propria visione, che risulta avere più di un contatto con l’interpretazione del giardino di Jorn data da Debord. Quello che per Debord era il portato situazionista dell’esperienza architettonica di Jorn, per Arancio è la possibilità di immaginare le forme, i volumi e le superfici del giardino come calchi di uno spazio in divenire, matrici iniziali nate dall’indistinguibile azione combinata del tempo, del lavoro dell’uomo e del caso. Le sculture realizzate a partire da questo spunto vivranno prima un dialogo integrato agli spazi del giardino, dopodiché saranno sistemate all’interno dello studio, in appositi cabinets classificatori che si offriranno allo sguardo analitico del visitatore, come reperti archeologici di un universo immaginario invisibile.
 
La mostra sarà accompagnata da un catalogo bilingue (italiano e inglese), per la collana MuDA BOOKS dell’editore Vanillaedizioni di Albissola Marina.
MuDA BOOKS è la collana diretta da Luca Bochicchio e Leo Lecci per conto del dipartimento DIRAAS dell’Università di Genova, Scuola di Scienze Umanistiche.
Il catalogo comprende testi di Luca Bochicchio, Guy Debord e Paola Nicolin e del team di giovani curatori dell’Associazione Amici di Casa Jorn: Stella Cattaneo, Diego Drago, Daniele Panucci, Alessia Piva.