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Fondazione Arnaldo Pomodoro presenta "Fotografie Inutili. Archivio fotografico ciclo-diffuso"

 

Performance speciale dell’artista Il pubblico viene invitato a scegliere una fotografia e ad entrare a far parte del progetto di Bortolato.

Giovedì 30 giugno la Fondazione Arnaldo Pomodoro ospita nello Studio del Maestro una tappa del progetto artistico itinerante di Luca Bortolato Fotografie Inutili. Archivio fotografico ciclo-diffuso.

Il progetto, a cura di Federica Arcoraci e patrocinato dal Comune di Padova, ruota attorno alla rivitalizzazione di una raccolta di vecchie fotografie, provenienti da album di famiglia dimenticati, che Bortolato ha recuperato e acquisito nel tempo, e al quale restituisce nuova vita e senso attraverso un'azione performativa che coinvolge il pubblico.

Lo scorso aprile l’artista è partito da Verona in sella a una bici d'epoca, per un itinerario che lo sta portando ad attraversare tutta l'Italia, dal Veneto alla Puglia, dalla Sicilia al Piemonte, fino alla Sardegna. Un viaggio che in tre mesi coprirà 4600km, facendo tappa in musei, associazioni culturali e gallerie d'arte per realizzare Fotografie Inutili.

Ad ogni tappa del viaggio l'artista realizza una performance invitando i partecipanti a scegliere una delle “fotografie inutili”, che Bortolato timbra, segna con luogo e data e firma, donandola al partecipante, al quale viene scattato un ritratto con il volto coperto dalla fotografia ricevuta. Attraverso il duplice atto della scelta e del dono, le fotografie "inutili" vengono "riattivate", acquistano nuovo senso e nuova vita, ed entrano a far parte di un singolare "archivio nomade" dell'artista, che tiene traccia di tutte le fotografie "non più inutili".

Nell'ambito del progetto, Bortolato realizzerà per la Fondazione una variante speciale, nata dal suo incontro con l'Archivio di Arnaldo Pomodoro – dove lo studio e la "riattivazione" di fotografie considerate marginali è attività quotidiana – e con la poetica tipica del lavoro del Maestro.

Ogni fotografia – anche quelle "inutili", delle quali cioè si è persa la connessione con una storia definita – è un documento di memoria, il tassello del racconto di un universo di persone, luoghi, momenti e storie. Ogni fotografia ha un potere narrativo, insito nell'immagine ma potenziato dalla presenza sul retro di parole scritte, timbri, date, riferimenti a persone e/o situazioni: frasi per noi indecifrabili perché appartenenti a vite altre, che non ci appartengono, scritture in fondo incomprensibili e misteriose, così come lo sono le sequenze segniche che caratterizzano l'opera di Pomodoro.

Così come succede con le immagini, anche l’incontro con queste scritture misteriose, tra queste tracce di vite altrui e le nostre vite, i nostri sogni e i nostri intimi racconti, scatena la nascita di nuove visioni e interpretazioni, di una nuova narrazione che riattiva e dona nuova vita alle "fotografie inutili".

Ospite della Fondazione negli spazi dello Studio di Arnaldo Pomodoro, Bortolato realizzerà la performance di Fotografie Inutili mostrando ai partecipanti solo il retro delle fotografie: ciascuno dovrà scegliere la sua fotografia da "riattivare" non in base all'immagine, ma alla curiosità o all'inaspettata sintonia con le tracce scritte dietro di essa.

 



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RITRATTI DI CLASSE. Il secondo capitolo del progetto "Come and see" di Francesco Jodice

 

Il progetto site-specific è a cura di Lorenzo Respi con la collaborazione di Chiara Dall’Olio di FMAV Fondazione Modena Arti Visive e si articola lungo il perimetro del cantiere arricchendosi con 3 nuovi punti espositivi. 

Sabato 11 giugno alle ore 18 inaugura la mostra fotografica Ritratti di Classe, secondo capitolo del progetto “Come and see” alla presenza dell’autore Francesco Jodice per il cantiere di AGO Modena fabbriche culturali.

Il progetto site-specific è a cura di Lorenzo Respi con la collaborazione di Chiara Dall’Olio di FMAV Fondazione Modena Arti Visive e si articola lungo il perimetro del cantiere arricchendosi con 3 nuovi punti espositivi.

Ritratti di classe, serie fotografica che Francesco Jodice ha iniziato nel 2005 coinvolgendo nel corso degli anni scuole medie e superiori di Torino, Vicenza, Ischia, Sassuolo e Milano, e ora anche Modena ha coinvolto 21 classi delle scuole secondarie di primo e secondo grado della città: E.D.S.E.G. - Città dei Ragazzi Centro di Formazione Professionale, Istituto Professionale Statale Socio-Commerciale-Artigianale “Cattaneo-Deledda”, Scuola Secondaria di primo grado “Lanfranco”, Scuola Secondaria di primo grado “Piersanti Mattarella”. Il progetto nasce come esplorazione della cultura e della società italiana contemporanea attraverso la tipica immagine della fotografia scolastica di fine anno. Ma è anche una descrizione della città fatta attraverso i volti e i corpi dei suoi abitanti, in particolare dei giovani fra i 12 e i 15 anni, non più bambini ma non ancora adulti, il cui futuro è tutto da scrivere: un paesaggio umano composito, protagonista e artefice del futuro della nostra città.
 
L'inaugurazione è ad ingresso libero fino a esaurimento posti.

 



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Kerstin BRÄTSCH Die Sein: Para Psychics II alla GiòMarconi

 

La mostra sarà visibile fino al 29 luglio. 

“Il suolo era viscere esterne prive di orizzonte, ovunque digestione e recupero; stormi di batteri facevano surf su onde di energia elettrica, sistemi di erosione chimica; autostrade sotterranee –melmosi abbracci infettivi – ribollivano alla ricerca di un contatto intimo in ogni direzione.”

Merlin Sheldrake, L’ordine nascosto

Kerstin Brätsch intraprende la realizzazione dei Para-Psychics (2020-2021) nel corso di lunghi periodi di autoisolamento durante i quali si dedica a un rituale giornaliero, una routine diaristica consistente nel visualizzare il proprio regno psichico. Il pluriennale interesse per la medianità collega direttamente questa serie di disegni  ai  suoi  precedenti Psychics (2006-2008) nei quali, facendo ricorso a letture divinatorie, l’artista esplorava simultaneamente lo stesso medium pittorico, continuando a incanalarlo poi attraverso altre forme artistiche, tecniche artigianali e collaborazioni. Privi di quei legami chiromantici i Para-Psychics simbolizzano tuttavia un’altra forma di chiaroveggenza, che stavolta muove verso l’interiorità.

Un caleidoscopico insieme di forme lievemente sfumate che evocano il foliage, labirintici tentacoli tubolari e forme angolari rifrangenti, delineati con semplici tratti di matite colorate, mutano, si dispiegano e si fondono sulla superficie cartacea. La manifestazione dello spazio interiore e mentale è qui concepita come metafisica squisitamente barocca o decorativa piuttosto che, ad esempio, il sottoprodotto  artistico  dell’inconscio,  dell’automatismo  psichico.  Mentre  a questi disegni non sembra corrispondere alcuna riconoscibile geometria, struttura o possibile ritrattistica, la loro composizione può essere intesa come qualcosa di simile a “un’architettura delle radici”, come scrive Merlin Sheldrake nel suo studio sui funghi, L’ordine nascosto. A tal proposito, le composizioni di Kerstin Brätsch possono dirsi opportunamente rizomatiche poiché condividono attributi sotterranei.

“Gli esseri umani raramente riflettono su qual è il punto in cui finisce un individuo e ne comincia un altro. Diamo per scontato – almeno nelle moderne società industriali – che noi cominciamo e finiamo dove comincia e finisce il nostro corpo”, scrive Sheldrake. Anche i Para-Psychics rigettano questa narrativa lineare e progressiva. Eppure, nel transfert dalla biologia all’ecologia del sé, permangono inevitabili residui del passato. Le figure occasionalmente compaiono in vari stadi del divenire o si disintegrano nel loro ambiente. Parti dell’anatomia umana, ripetutamente aperte e sezionate, vengono raffigurate germoglianti e vegetative o consunte e spettrali. Alcune si manifestano come entità spettrali e incorporee ridotte a qualcosa di simile ad arterie e organi galleggianti. “[…] la grottesca immagine del corpo ricomposto appare, in superficie, un’estensione dell’astrazione organica”, scrive Mike Kelley, ricordandoci che le grottesche sono state ritrovate per la prima volta nei sotterranei dell’antica Roma, un tempo prediletta dagli artisti del Rinascimento.1

Scrivendo a proposito della riduzione come di una forma di distorsione del modernismo, Kelley prende ad esempio il romanzo di J.G Ballard del 1966, Foresta di cristallo, in cui un fenomeno ambientale provoca una fulminea cristallizzazione. Tale riduzione, “letale e definitivamente apocalittica”, conduce all’omogeneizzazione del tempo, come anche alla pulsione a spersonalizzarsi, condizione comune dei protagonisti di Ballard. Alcune  immagini  di  Kerstin Brätsch presentano tinte che ricordano i cristalli, come se intaccate da un processo cataclismico analogo a quello che ha avuto luogo all’esterno durante la loro creazione. Eppure i Para-Psychics resistono all’inerzia poiché rappresentano un vuoto temporale piuttosto che un lineare processo verso la solidificazione. In tal senso, la relazione dell’artista con il mondo esterno si propaga, fondamentalmente come la logica di rete del micelio, il filamento fungino che “andrebbe pensato più come un processo che come una cosa in sé, la rappresentazione concreta della caratteristica principale dei funghi: la tendenza a esplorare e a proliferare”. Intraprendendo tale sentiero Kerstin Brätsch canalizza l’iperconnettività, ripensando a ciò che la circonda come a una superficie piatta sulla quale non esiste distinzione tra spazio interno ed esterno.

 



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Fondazione Pastificio Cerere presenta "The world that I dream"

 

La mostra presenta una riflessione sulla natura dell’architettura in relazione all’azione astratta del montaggio e al ruolo dell’archivio, inteso come strumento di progettazione.

Lunedì 16 maggio 2022 la Fondazione Pastificio Cerere presenta The world that I dream, la personale di Luca Galofaro a cura di Abdelkader Damani, aperta al pubblico da martedì 17 maggio a mercoledì 20 luglio 2022 e secondo appuntamento di “The Archive Project”, un programma di mostre a cura di CAMPO.

The world that I dream presenta una riflessione sulla natura dell’architettura in relazione all’azione astratta del montaggio -considerato come un metodo per definire le possibilità che si aprono allo sguardo dell’architetto-  e al ruolo dell’archivio, inteso come strumento di progettazione.

La mostra è una raccolta di immagini di tipo diverso, alcune inviolate altre profanate, che si trasformano in modelli e danno forma ad un’idea di mondo: ogni architetto definisce la propria visione attraverso una ricomposizione di segni e forme che ha collezionato nel tempo. Quest’insieme di frammenti è custodito nella memoria di ognuno. Il progetto è la risultante di un montaggio inconsapevole. L’archivio gioca un ruolo essenziale nello sviluppo del lavoro che concorre alla costituzione dell’architettura, permette da una parte di custodirne la memoria, dall’altra contribuisce a creare un immaginario. Galofaro compie un’azione di riscrittura delle narrazioni del passato e Abdelkader Damani la definisce come un'utopia mnemonica, una Metopia, in quanto introduce nuovi assemblaggi narrativi, liberandosi da ogni forma codificata in precedenza.

Il percorso espositivo si articola in tre stanze, nella prima sono esposte Postcards (2010-2022), una serie di cartoline in cui i luoghi rappresentati assumono un ruolo chiave nella definizione dei montaggi: alcune non vengono modificate e sono la testimonianza di edifici che non esistono più, altre incontrano frammenti di architetture e oggetti che si trasformano in un flusso in cui i significati nascono da ciò che apparentemente non è correlato. Le cartoline perdono il loro status di corpo monumentale e di fonte documentale. Un modo per pensare assieme tempo e immagine non come palinsesti interpretativi diversi ma congiunti, l'immagine diventa il centro di una riflessione sul tempo del progetto.

Nella seconda stanza si incontrano le Immagini trovate, montaggi di fotografie estratte da libri che non hanno nessun legame diretto con l’architettura, sono frutto di un incontro accidentale e, catalogate per temi, contribuiscono a sperimentare luoghi e forme.

La terza stanza ospita What's left of the world (2019-2022) e The hidden memory of images (2021-2022), immagini dialettiche che diventano modelli con un carattere seriale. L’accostamento delle immagini, per quanto differenti siano, crea sempre una trasformazione, un’apertura del nostro sguardo. Il montaggio è usato come sistema d’annotazione di idee, produce strategie narrative attraverso operazioni semplici: moltiplicazione di segni, cambi di scala, inversioni, innesti, sovrapposizioni, cancellazioni. Operazioni utili per porsi delle questioni relative al progetto che solo in un secondo tempo possono essere applicate all’architettura. 

Il mondo che si crea quando sogno è un mondo dove le immagini si incontrano e diventano le parole di un discorso sull’architettura” così Luca Galofaro indica poeticamente il suo metodo di ricerca e lavoro, che accosta rappresentazioni trovate nei mercati, estratte dai libri e fotografie scattate durante i viaggi, a forme, oggetti e architetture appartenenti al suo archivio personale. Le immagini in mostra definiscono una strategia operativa piuttosto che una teoria.

Biografie

Luca Galofaro, architetto, è professore associato presso l'Università di Camerino. Tra i fondatori dello studio LGSMA e IaN+, con il quale Ha vinto la Medaglia d’Oro dell’architettura Italiana per l’opera prima (2006) ed è stato tra i finalisti dell’Aga Khan Award (2013) e dello Iakov Chernikhov International Prize (2010). Ha esposto i suoi lavori in sette edizioni della Biennale di Venezia, alcuni dei sui progetti e disegni sono parte della collezione permanente del Frac Centre val de Loire e della collezione del MAXXI di Roma.  La sua ricerca si concentra sulla relazione fra l’architettura, la teoria e la pratica curatoriale.  Nel 2017 e 2019 è curatore di due diverse edizioni della Biennale di Architettura di Orleans al Frac Centre val de Loire. Nel 2015 è tra i fondatori della piattaforma di ricerca CAMPO. Tra le sue pubblicazioni Artscapes. Art as an approach to contemporary landscape (Editorial Gustavo Gili, 2003),  An Atlas of Imagination (DAMDI, 2015), Marcher dans le rave d’un autre (Les presses du reel 2017),Years of solitude (Les presses du reel 2019), Questo non è un manifesto (Letteraventidue, 2021)

Abdelkader Damani, storico dell’arte e architetto, è direttore del Frac Centre-Val de Loire  ad Orléans dal 2015 e ha realizzato la prima Biennale d'Architettura di Orléans nel 2017. Nel 2019, è stato il curatore della prima Biennale di Rabat e il co-curatore della seconda Biennale di Architettura di Orléans. Tra il 2007 e il 2015 ha guidato il programma "VEDUTA" alla Biennale d'Arte Contemporanea di Lione. Nel 2014, ha co-curato la Biennale di Dakar (Our Common Futur, Dak'ART 2014).

CAMPO è uno spazio per discutere, studiare e celebrare l’architettura fondato a Roma nel 2015 da Gianfranco Bombaci, Matteo Costanzo, Luca Galofaro e Davide Sacconi. www.campo.space

 



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 Maria Cristina Carlini, Prometeo, legno di recupero, copyright Mimmo Capurso.

 

Maria Cristina Carlini "La forza delle idee"

 

In mostra alla Fondazione Stelline una personale di Maria Cristina Carlini con sculture monumentali e opere inedite di piccole e grandi dimensioni presenti nella Sala del Collezionista e nel Chiostro della Magnolia.

Torna la grande scultura alla Fondazione Stelline con la mostra Maria Cristina Carlini La forza delle idee, a cura di Vittoria Coen. Si tratta di una nuova prestigiosa personale presentata nella Sala del Collezionista e nel suggestivo Chiostro della Magnolia: dal 5 maggio al 12 giugno 2022, sculture monumentali insieme a opere di piccole e grandi dimensioni danno vita a un percorso espositivo che nasce dalla fluidità del pensiero dell’artista e riunisce numerosi inediti in un crescendo di emozioni.

La selezione di opere esposte esprime la forza e la tenacia del percorso dell’artista e delle sue idee con cui plasma la materia, ma anche lo spazio e il tempo e li trasforma in scultura universale dando forma, come afferma la curatrice, «alla magia di una partitura tesa a creare un concerto unico di vibrazioni cosmiche». Maria Cristina Carlini approfondisce il proprio legame verso la terra e i materiali naturali, simboli arcaici capaci di suscitare ricordi ancestrali spesso sopiti, facendo della memoria individuale e collettiva un punto chiave della sua poetica.

Il percorso espositivo si apre con Scudi un’installazione del 1998 mai esposta e composta da tre alti pali in ferro interrotti da moduli policromi che assumono una valenza totemica intima e antica.
L’attenta scelta del materiale e dei suoi accostamenti rappresenta da sempre una peculiarità dell’arte di Maria Cristina Carlini. Così prende forma, nel 2021, la scultura Filemone e Bauci, composta da due grandi dischi di legno di recupero impreziositi da rivoli e “spugnature” d’oro, incastonati in una struttura in ferro che li sostiene e li custodisce immobili in un tempo sospeso.
Il flusso inarrestabile del suo pensiero artistico si rivela nelle vibranti colonne “tortili”, in grès e ferro, di Castore e Polluce (2022), due disarmanti racconti che creano un’astrazione inedita e personale, evocano la terra e la sua forza, una materia viva e in continuo mutamento.
Alle opere di grandi dimensioni si intervallano lavori più piccoli ma non meno significativi nella poetica della scultrice, come i Libri in lamiera o i volumi tormentati e instabili di Guerra.
L’esposizione culmina nel rincorrersi di luci e ombre di Prometeo (2022), da cui sgorgano con forza la storia e i suoi ricorsi: tre alti tronchi scavati e illuminati evocano, con la loro imponente fragilità, memorie e ferite frutto di un passato dimenticato ma tangibile.

Nella cornice storica e coinvolgente del Chiostro della Magnolia le sculture monumentali poste sul prato instaurano un dialogo affascinante con l’architettura che si riflette nell’immobile specchio d’acqua dei Fantasmi del lago, moduli in lamiera policroma che corrono evanescenti verso il cielo; l’opera I guardiani del segreto entra in sintonia con la natura racchiusa nel chiostro, il legno di recupero si alterna all’acciaio corten in una sovrapposizione di materiali in cui prevalgono l’equilibrio e l’armonia delle forme che troviamo anche in Incontro, un susseguirsi di linee e volumi in continuo divenire.

In mostra è possibile ammirare il docufilm Maria Cristina Carlini. Geologie memorie della terra, realizzato nel 2020 da Storyville, che affronta con sguardo intimo e privato la vita dell’artista al lavoro nel suo studio; la voce narrante di Maria Cristina Carlini accompagna in un viaggio tra le sue opere e il ritmo rarefatto del laboratorio.

Accompagna la mostra una breve pubblicazione bilingue con testo introduttivo di Vittoria Coen e le immagini delle opere esposte.

Maria Cristina Carlini inizia il proprio percorso artistico con la lavorazione della ceramica a Palo Alto in California, successivamente prosegue la sua attività a Bruxelles, dove contemporaneamente insegna a lavorare al tornio; si trasferisce poi a Milano e si dedica esclusivamente alla scultura. Da questo momento, oltre al grès e alla terra, entrano a far parte della sua espressività materiali come il ferro, la lamiera, lacciaio corten e il legno di recupero. Maria Cristina Carlini dà vita a opere che spaziano dalle piccole dimensioni alle monumentali; la sua carriera è costellata da riconoscimenti, mostre personali e collettive in diverse sedi pubbliche e private, nazionali e internazionali, e le sue sculture monumentali sono presenti in permanenza in Europa, America e Asia. Attualmente vive e lavora a Milano, dove il suo atelier è una fucina attiva in cui prosegue la propria attività creativa.        
www.mariacristinacarlini.com


MARIA CRISTINA CARLINI. LA FORZA DELLE IDEE
a cura di Vittoria Coen
Dal 5 maggio al 12 giugno 2022
Orario: martedì – domenica, h. 10.00-20.00 (chiuso il lunedì)
Ingresso gratuito, con obbligo di Green Pass Rafforzato e mascherine FFP2, o comunque come da disposizioni in vigore
Fondazione Stelline, c.so Magenta 61, Milano
Info: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. | www.stelline.it

 



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Carlo Valsecchi, # 01135 Rotzo, Vicenza, IT. 2020, C-Print, plexiglass con/with dibond, 180 x 220 cm © Carlo Valsecchi

Collezione Maramotti presenta Bellum di Carlo Valsecchi

 

Un nuovo progetto artistico commissionato a Carlo Valsecchi.

In occasione del Festival di Fotografia Europea 2022, dedicato al tema “un’invincibile estate” – tratto da “Ritorno a Tipasa” di Albert Camus, un inno alla capacità di resistere alle avversità e alla creazione di nuove reazioni e considerazioni sull’esistenza umana – Collezione Maramotti presenta Bellum, un nuovo progetto artistico commissionato a Carlo Valsecchi.

Le quarantaquattro fotografie di grande formato che costituiscono Bellum – tutte presenti nel volume che accompagna la mostra, e di cui una ventina in esposizione – raccontano il conflitto ancestrale tra uomo e natura e tra uomo e uomo; l’uso della natura come difesa dall’altro uomo e parimenti la difesa dell’uomo dalla natura. Con la montagna come sua simbolica rappresentazione – espressione naturale estrema e insieme luogo dell’ultima guerra di posizione – il progetto origina da un’esplorazione dei territori e delle costruzioni fortificate del nord-est italiano legati al primo conflitto mondiale, uno degli ultimi momenti nella storia dell’umanità occidentale in cui il destino e l’esperienza dell’uomo erano strettamente connessi all’ambiente naturale, alla sua conformazione, alle sue leggi e al suo controllo. Cosa resta di quel paesaggio di un secolo fa? Quali sono le tracce del patto che l’umanità aveva stretto, in quel momento storico, con la natura?

Attraverso un lavoro durato circa tre anni, Valsecchi ha percorso quelle montagne con il suo banco ottico, dall’inverno alla primavera si è messo in ascolto di quei luoghi per affacciarsi sull’abisso di un conflitto cieco, sublimando nei suoi scatti una realtà cruda in forma spesso astratta, intimamente estetica e assoluta nella sua essenza. Le immagini di Bellum diventano squarci, portali fatti di luce e composizione, sospesi in un tempo senza termine tra silenzio, isolamento e attesa.

Stretti passaggi e cunicoli, trincee abitate da corpi perduti e rinata vegetazione; interstizi e fenditure, cavità rocciose, lacerazioni interne e interiori; forti militari e i loro resti, intrappolati tra il bianco compatto della neve e il bianco abbacinante della luce, sipari tra la realtà presente e un indefinibile oltre, un orizzonte negato; arche-rifugio e luoghi di morte, piattaforme di artiglieria, cupole metalliche, grotte e pareti bruciate da centinaia di esplosioni, riconquistate da muschi e concrezioni organiche e minerali, (di)segnate dall’umidità; boschi evanescenti velati dalla nebbia o dall’aria fitta della neve, schermi di rami intricati che occultano il paesaggio retrostante; pozzanghere e specchi d’acqua opaca che riflettono, metallici, il cielo sopra la montagna. In questa serie di fotografie di Valsecchi, densa di analogie visive e concettuali, la natura talvolta si fa architettura o si antropomorfizza, mentre il costruito si ibrida con l’ambiente naturale in un processo di scambio e mimesi reciproci, in cui tuttavia risuonano silenziosi i cicli della natura e lo scorrere del tempo – il lento processo di mutamento e di cancellazione del passaggio dell’uomo e dei suoi segni inesorabilmente effimeri sulla terra.

In occasione della mostra sarà pubblicato un libro omonimo con testi di Florian Ebner, curatore capo del Cabinet de la Photographie del Centre Pompidou di Parigi, e Yehuda E. Safran, critico d’arte e di architettura e professore presso il Pratt Institute di New York.

1° maggio – 31 luglio 2022

Visita con ingresso libero negli orari di apertura della collezione permanente.

Giovedì e venerdì 14.30 – 18.30
Sabato e domenica 10.30 – 18.30

L’apertura al pubblico della Collezione e della mostra è soggetta alle disposizioni governative per il contenimento della pandemia.

Per accedere alla Collezione è necessario indossare la mascherina di tipo chirurgico o superiore.
 

Note biografiche

Carlo Valsecchi (nato a Brescia nel 1965) vive e lavora a Milano.

Dopo essere stato selezionato per la Biennale di Architettura di Venezia nel 1992, il suo lavoro è stato esposto in numerose istituzioni in tutto il mondo. Tra le ultime mostre personali: The Open Box, Milano (2019); Salone degli Incamminati, Pinacoteca Nazionale di Bologna (2019); Ex Ospedale dei Bastardini, Biennale di Fotografia dell’Industria e del Lavoro, Bologna (2017); Galerie Walter Keller, Zurigo (2013); Mart, Rovereto (2011); Galleria Carla Sozzani, Milano (2011); Musée de l’Elysée, Losanna (2009). Ha inoltre preso parte a numerose mostre collettive, tra cui di recente: MMCA Seoul (2018); Fondazione MAST, Bologna (2016, 2015); Palazzo Da Mosto, Festival di Fotografia Europea, Reggio Emilia (2015); Museo della Merda, Piacenza (2015); Somerset House, Londra (2013); Ivorypress, Madrid (2012).