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TESTIMONIANZA AUTENTICA DI UNA SITUAZIONE SPONTANEA ERNESTO FANTOZZI, FOTOGRAFIE 1958-2018 

La mostra omaggio al grande fotografo è l’inizio di un lavoro di valorizzazione, studio e catalogazione del suo archivio, recentemente donato al Museo.

Ernesto Fantozzi è il protagonista del prossimo appuntamento espositivo del Museo di Fotografia Contemporanea.La mostra omaggio al grande fotografo è l’inizio di un lavoro di valorizzazione, studio e catalogazione del suo archivio, recentemente donato al Museo. Il fondo rappresenta l‘intera sua produzione fotografica e consta di circa 75mila unità, tra stampe alla gelatina bromuro d’argento, negativi e provini.

Il percorso espositivo pensato dai tre curatori Carlo Cavicchio, Maddalena Cerletti, Sabina Colombo ripercorre la sua intera produzione e restituisce, attraverso due differenti modalità di visione, i periodi della sua attività. Le stampe in mostra raccontano l’avvio della sua attività e sono state realizzate direttamente da Fantozzi negli anni Novanta, quando ha ripreso in mano il suo archivio e ha ricominciato a fotografare. Una proiezione presenta invece le fotografie degli anni Novanta-Duemila. Completa la mostra un apparato documentario e bibliografico volto a mostrare oggetti originali donati dall’autore e conservati presso l’archivio del Museo e alcune delle numerose pubblicazioni in cui il suo lavoro è stato presentato dagli anni Sessanta ad oggi.

 “Questa fotografia è testimonianza autentica di una situazione spontanea” – è la frase manifesto appuntata meticolosamente dall’autore sul verso di ogni stampa. Poche parole che esprimono la sua idea di fotografia documentaria lontana da ogni formalismo estetico, radicata, invece, nella realtà. Non si tratta solo di esplicitare la natura di una fotografia diretta e non manipolata come valore morale ma di manifestare un atteggiamento di empatia e di viva partecipazione nei confronti delle “cose della vita” e della gente comune, che vengono descritte “così come sono”.

Ernesto Fantozzi inizia a fotografare alla fine degli anni Cinquanta fino ai primi anni Settanta e, dopo una pausa di vent’anni, durante la quale si dedica principalmente all’insegnamento, riprende l’attività fino ai giorni nostri.

Egli stesso si definisce un ‘fotografo documentarista’, un ‘fotografo della realtà’ e realizza fotografie in bianco e nero, escludendo volutamente il colore. Rivolge il suo sguardo alla quotidianità che conosce, agli aspetti meno appariscenti e ordinari della vita. Documenta la città di Milano e il suo hinterland soffermandosi sul paesaggio urbano e suburbano e sul racconto della vita sociale all’interno della metropoli con un’attenzione alle abitudini, alle relazioni, alle persone che la attraversano, che scorrono e si intrecciano.

Partendo dalla fotografia “della famiglia seduta nel tinello che guarda il Festival di Sanremo alla televisione” (Milano, 1958) - che l’autore stesso definisce in un’intervista del 2002 “la mia prima foto, che potrei definire “consapevole” - le opere in mostra seguiranno un ordine in parte cronologico e tematico che accosta la produzione più famosa degli anni Sessanta a quella meno cosciuta del secondo periodo, a partire dai primi anni Novanta.

Leitmotiv di tutta la sua produzione è la trasformazione in atto sia nel paesaggio - con la nascita del “paesaggio industriale” costellato di fabbriche negli anni Sessanta e con lo sviluppo delle infrastrutture e della logistica negli anni Novanta -, sia dell’aspetto sociale e culturale condizionato dalla crescita dell’occupazione, dall’emigrazione e dagli effetti del boom economico.

Nelle sue fotografie, stratificate e dense di particolari, convivono il vecchio e il nuovo, la tradizione e la modernità. Con rapidità di visione e profonda intuizione coglie la spontaneità di gesti ed espressioni, l’istante decisivo carico di significato che rende la fotografia emblema di una situazione. Chi guarda le immagini di Fantozzi viene proiettato nella maglia di relazioni, sguardi e dialoghi che invitano ad avvicinarsi per sentire meglio le conversazioni ed osservare con attenzione tutti i dettagli della scena, fotografia dell’atto teatrale della vita.

BIOGRAFIA

Ernesto Fantozzi (Milano, 1931) si avvicina alla fotografia alla fine degli anni Cinquanta quando riceve in dono dalla sua fidanzata che poi diventerà sua moglie la sua prima macchina fotografica: una Kodac Retinette. Studia fotografia da autodidatta ed entra a far parte del Circolo Fotografico Milanese del quale è tuttora Socio Onorario e Benemerito. Fin da subito si dedica al reportage in bianco e nero, influenzato dalle fotografie di Henri Cartier-Bresson e Robert Capa, ma anche dal cinema neorealista italiano. Nel 1962 riceve il titolo di AFIAP (Artista della Federazione Internazionale dell’Arte Fotografica) e negli stessi anni espone le sue fotografie in occasione di mostre personali e collettive. Insieme a Carlo Cosulich e Mario Finocchiaro fonda il “Gruppo 66”, composto da fotoamatori con un ideale e un obiettivo comune: documentare i cambiamenti di Milano e del suo hinterland con uno sguardo lontano da ogni velleità artistica. Fantozzi non farà mai della fotografia la sua professione, ma continuerà a portare avanti progetti personali. Dopo la chiusura del gruppo nella metà degli anni Sessanta si allontana progressivamente dalla pratica fotografica e si dedica all’insegnamento presso il Circolo Fotografico Milanese. Nei primi anni Novanta, quasi vent’anni dopo, torna a fotografare con lo stesso sguardo rivolto alla città e alle sue dinamiche sociali. Nel 2002 viene nominato “Autore dell’anno” dalla Federazione Italiana Associazioni Fotografiche e un anno dopo riceve il titolo di “Maestro della fotografia italiana”. Il suo lavoro è stato esposto in diverse istituzioni e pubblicato su riviste e volumi. Sue fotografie sono conservate in collezioni pubbliche e private italiane e straniere, tra cui il MoMa e il Metropolitan Museum di New York.

La mostra inaugura sabato 3 dicembre e prosegue fino al 29 gennaio 2023, in contemporanea con la rassegna ‘PAESAGGIO DOPO PAESAGGIO. Fotografie di Andrea Botto, Claudio Gobbi, Stefano Graziani, Giovanni Hänninen, Sabrina Ragucci, Filippo Romano’.

 



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XNL ARTE presenta Meris Angioletti e Ulla von Brandenburg "Sul vestito lei ha un corpo". Note su Sonia Delaunay 

"Sul vestito lei ha un corpo" il titolo scelto per la mostra, desidera dunque l’attenzione sui temi del progetto: il tessuto e il corpo, la poesia e la voce, la parola e il gesto, il tempo e lo spazio.

Dal 24 novembre 2022 XNL Piacenza, il Centro di arte contemporanea, cinema, teatro e musica della Fondazione di Piacenza e Vigevano apre al pubblico Sul vestito lei ha un corpo. Note su Sonia Delaunay, il progetto espositivo di Meris Angioletti e Ulla von Brandenburg invitate a riflettere liberamente sulla figura dell’artista russo-francese Sonia Delaunay, nata a Odessa (Ucraina) nel 1885 e morta a Parigi nel 1979.

Artista capace di applicare il progetto di rifondazione futurista del mondo, Sonia Delaunay ha coltivato una peculiare attitudine verso lo sconfinamento della pittura astratta oltre la cornice del quadro lavorando sulla dinamica dei colori e la loro interazione per costruire un personalissimo vocabolario espressivo spesso identificato con il concetto di simultaneità che ingaggia diverse discipline – dalla pittura al design, dalla moda alla poesia, dal cinema alla scultura alla editoria…– entro un'unica resa estetica dei molteplici aspetti della vita.

Nel 1913 Sonia fa di un abito il suo manifesto poiché affida alla presentazione del suo primo “vestito simultaneo”, costruito attraverso una combinazione di colori e forme, il messaggio di una modernità anti-moderna, androgina, né maschile né femminile, dinamica e fluida, che vive il corpo come laboratorio di ricerca estetica e sociale. Del vasto network di poeti e letterati che circonda la coppia che vive e lavora a Parigi sarà l’amico poeta Blaise Cendras (1887-1961) a dedicare una poesia al vestito, Sur la robe elle a un corps, dal quale il titolo di questa mostra prende ispirazione.

Il progetto muove dall’invito rivolto a due artiste contemporanee – Meris Angioletti (Bergamo, 1977, vive e lavora a Parigi) e Ulla von Brandenburg (Karlsruhe 1974, vive e lavora a Parigi) – a riflettere sulla figura di Sonia Delaunay e in modo particolare sull’avventura dell’Atelier Simultané, attivo dal 1923 al 1934, un’estensione della casa-studio a Parigi in Boulevard Malesherbes dove Sonia Delaunay viveva col marito Robert.

Angioletti e von Brandenburg sono invitate a riflettere su questo episodio storico ancora oggi di grande attualità come esempio di ricerca sulla natura identitaria del tessuto, sulle diverse traduzioni della pittura pura in immagine in movimento, in voce e spazio e sull’idea stessa di arte come campo aperto in cui il corpo agisce e agendo conosce. La proposta di dialogo attorno a Sonia Delaunay è dunque una domanda aperta a grandi interpreti contemporanee sul nostro tempo, sull’idea di simultaneità come rapporto uomo-società-spazio, come velocità di marcia del nostro stare al mondo, come condizione di chi sconfina, cambia, muta, si trasforma perennemente.

Sul vestito lei ha un corpo, il titolo scelto per la mostra, desidera dunque l’attenzione sui temi del progetto: il tessuto e il corpo, la poesia e la voce, la parola e il gesto, il tempo e lo spazio.

Artista e ricercatrice, Meris Angioletti concentra la sua pratica sulla relazione tra linguaggio e corpo. Poesia, letteratura, psicologia, trattati di fisica e matematica così come tarocchi e rituali sono alla base di una ricerca sul visibile e invisibile, sul frammento e l’intero, tra consapevolezza e inconsapevolezza delle cose. Questi riferimenti sono al centro di un’arte che prende la forma di installazioni e tracce sonore, performance, reading notturni, coreografie, proiezioni di luce, colore e immagini. La voce è materia prima privilegiata dall’artista mentre l’opera si crea attraverso diverse fasi di traduzione.

Il lavoro di Ulla von Brandenburg è invece un esempio peculiare di ricerca sulle relazioni tra il tessuto e il corpo. Quest’ultimo è vissuto come un materiale che crea spazio, che trasforma lo spazio e che induce a comportamenti “altri” e che spesso, nelle sue opere, accoglie come un sipario proiezioni cinematografiche legate a performance e messe in scena dirette dall’artista stessa. Film, teatro, performance, letteratura così come personaggi della storia sono elementi di un discorso complesso che l’artista tedesca ha negli anni abilmente tradotto in scenari tridimensionali di colore e forme.

Angioletti e von Brandenburg sono protagoniste della galleria centrale, dove costruiscono insieme un’opera-mostra composta da una installazione in tessuto e da una serie di nuovi film (von Brandenburg) e un ampio progetto sonoro (Angioletti).

La galleria è preceduta da uno spazio allestito come una camera del tempo dove è presentata una selezione di gouache di Sonia Delaunay provenienti dalla Galleria Gió Marconi di Milano e da una serie di materiali legati alla poetica dell’artista.

Con la mostra Sul vestito lei ha un corpo. Note su Sonia Delaunay l’istituzione inaugura una serie di incursioni dedicate al dialogo tra arte moderna e contemporanea, tese all’obiettivo di rileggere capitoli della storia delle arti con un’ottica multimediale e non lineare votata allo sconfinamento dei linguaggi e delle cronologie, con una particolare attenzione a protagoniste e protagonisti di una modernità irregolare, che ha saputo intercettare in anticipo sui tempi sensibilità e attitudini del futuro.

La mostra sarà accompagnata nel corso del tempo da un programma di atelier d’artista concepiti da Meris Angioletti, che ancora una volta confermano la volontà dell’istituzione di riflettere sul concetto di museo-atelier, concepito come luogo di intreccio dei saperi, di laboratori produttivi e di costruzione di una relazione con il territorio e le sue infrastrutture culturali basata sulla esperienza delle pratiche artistiche.

 



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 Quotidiana, Installation View Paesaggio, Biggio Fiorentino. Foto Carlo Romano. 

Seconda mostra della sezione PAESAGGIO: Alessandro Biggio e Antonio Fiorentino. Appunti per un’archeologia del futuro 

Il programma espositivo sull’arte italiana contemporanea promosso dalla Quadriennale di Roma e da Roma Culture, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali.

Nell’ambito di QUOTIDIANA al Museo di Roma a Palazzo Braschi, il programma espositivo sull’arte italiana contemporanea promosso dalla Quadriennale di Roma e da Roma Culture, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, dal 19 novembre 2022 al 12 gennaio 2023 per la sezione PAESAGGIO apre al pubblico la mostra Appunti per un’archeologia del futuro di Alessandro Biggio (Cagliari, 1974) e Antonio Fiorentino (Barletta, 1987), mentre per la sezione PORTFOLIO, dal 19 novembre all’11 dicembre 2022, sarà esposta un’opera del giovane artista Giuseppe Di Liberto (Palermo, 1996).

QUOTIDIANA rientra nel Programma dei 95 anni della Quadriennale, per il quale la Quadriennale di Roma ha ricevuto un contributo da parte di Presidenza del Consiglio dei Ministri - Struttura di missione per la valorizzazione degli anniversari nazionali e della dimensione partecipativa delle nuove generazioni.

Nella sezione PAESAGGIO, Appunti per un’archeologia del futuro trae origine da una riflessione della curatrice Alessandra Troncone su una tendenza particolare della scultura italiana del XXI secolo: alcune opere assumono forme assimilabili a quelle di reperti archeologici i cui connotati, invece che riferirsi ad un passato noto, sembrano proiettare verso un possibile futuro incerto. Il sentimento che lega diversi artisti ad una idea di “fine del futuro”, consapevolmente o inconsapevolmente espressa nei loro progetti, è qualcosa di profondamente radicato nella società attuale e nel suo profondo sentimento di precarietà.

La ricerca artistica di Alessandro Biggio e Antonio Fiorentino considerata dal saggio critico della curatrice, si concentra sui processi di trasformazione della materia e dei significati culturali attraverso il tempo.

Alessandro Biggio presenta Cámua (2021), una scultura originata dal calco dell’interno di un tronco marcito, attorno al quale è intrecciato un cordino lavato in un impasto di acqua e cenere, qui utilizzato come materiale simbolico legato allo sgretolarsi del corpo. L’opera diviene un luogo in cui la conoscenza dei tempi e dei ritmi della natura si incrocia con quella delle tradizioni culturali, come la tecnica di intreccio della cordula, utilizzata per realizzare la scultura.

Nell’opera Hermetica Hesperimenta (2019) di Antonio Fiorentino, qui esposta, una scaffalatura da deposito archeologico espone una serie di opere non finite dell’artista, quasi fossero anch’esse dei reperti, mentre i cumuli di detriti sul pavimento rimandano ad oggetti ormai distrutti e di cui si è ormai persa la memoria.

Alessandro Biggio (1974), vive e lavora tra Cagliari e Calasetta. Nella sua pratica, fortemente radicata nei luoghi/geografie in cui lavora, riveste un ruolo fondamentale la sperimentazione con diversi materiali sia naturali che artificiali, in particolare la cenere, l’argilla, il poliuretano. Le sculture, i disegni e le installazioni, sono l’esito di lunghi processi nei quali forma e disfacimento coesistono in un delicato equilibrio.

Antonio Fiorentino (Barletta, 1987) vive e lavora a Milano. Ha ricevuto premi per artisti emergenti, tra cui il New York Prize XVI. Le istituzioni nazionali e internazionali dove ha esposto sono: TRIENNALE Milano (2022); IIC New York (2018);  MUSAC, Leon, (2018); MUHNAC, Lisbona, (2017); HANGAR, Lisbona, (2017); ISCP, New York, (2017); Istituto Svizzero, Roma, (2017); La Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea, Roma, (2016); HIAP, Helsinki, (2016); Kunst Meran, Merano (2015); Centro di Arte Contemporanea Villa Arson, Nizza, (2014); American Academy, Roma, (2013); Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino, (2012). 

Nella sezione PORTFOLIO, Giuseppe Di Liberto presenta Cortei (2022), un’opera scultorea in argilla che si trasforma lungo la durata della mostra. Due gruppi scultorei rappresentano dei cortei funebri, ognuno con un diverso destino: il primo viene bagnato regolarmente dal gocciolare dell’acqua, mentre il secondo viene lasciato a seccarsi. L’abbondanza del nutrimento, come la sua assenza, porta al dissolvimento e alla scomparsa della forma, come una metafora della fragilità dell’esistenza incarnata dal materiale scultoreo utilizzato.

L’opera di Giuseppe Di Liberto si connota come un’indagine artistica di carattere antropologico e rituale che pone al centro del suo obiettivo i processi di culto ed esorcismo della morte. Il suo interesse relativo a questi temi universali è volto alla ricerca di un antidoto al senso di vuoto e ai processi di dispersione accelerati dalla società contemporanea. La cultura popolare - nelle sue declinazioni tragicomiche - è un bacino da cui l’artista attinge in modo trasversale, con riferimenti che si stratificano nelle diverse linee di ossessione che abitano la sua pratica, attraverso una pluralità di linguaggi e tecniche.

Giuseppe Di Liberto nasce nel 1996 a Palermo, dove si diploma nel 2019 in Scultura presso l’Accademia di Belle Arti. Qui inizia a sperimentare il medium della scultura adottando un approccio sperimentale e multidisciplinare, adoperando anche altri medium per traslare la sua ricerca, che attualmente ruota attorno al tema della morte e del rito funebre in occidente. È attualmente iscritto al corso magistrale in Arti Visive allo IUAV di Venezia, dove nel 2020 co-fonda il collettivo FRICHE. Vive e lavora tra Venezia e Palermo.

QUOTIDIANA è il programma espositivo che, a partire da settembre 2022, coinvolge le due sale al piano terra del Museo di Roma, aperte al pubblico con un palinsesto di mostre, ideate e prodotte dalla Quadriennale, con l’obiettivo di approfondire alcuni orientamenti significativi dell’arte italiana del XXI secolo. Nell’atrio d’ingresso che connette le due sale è allestito uno spazio di lettura dove sono messi a disposizione del pubblico i testi critici sviluppati dai curatori delle due rassegne.

Il programma si divide in due cicli espositivi. In Paesaggio, ogni due mesi, sei curatori italiani e stranieri riflettono su traiettorie artistiche attraverso un testo critico e una mostra con poche opere essenziali. In Portfolio, undici artisti under 35 sono presentati in mostra una volta al mese con una sola opera. A raccontarne la ricerca è un portfolio sviluppato da Gaia Bobò, curatrice in residenza alla Quadriennale.

 



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ANDREA DI MARCO. PEGNO negli ambienti del Monte dei Pegni di Palazzo Branciforte 

Un omaggio all’inconfondibile poetica figurativa dell’artista.

Palermo ricorda il pittore Andrea Di Marco (Palermo, 1970 – 2012), a dieci anni dalla prematura scomparsa, con la mostra “Pegno”, concepita, sin dal luogo e dall’allestimento, come un omaggio all’inconfondibile poetica figurativa dell’artista: nei grandi ambienti del Monte dei Pegni di Palazzo Branciforte, oggi sede della Fondazione Sicilia, sono infatti collocati circa trenta suoi dipinti anche di grandi dimensioni, accuratamente selezionati dai curatori Sergio Troisi e Alessandro Pinto, posti in un dialogo serrato con le scaffalature lignee che a perdita d’occhio percorrono le sale.

L’esposizione, visitabile dal 10 novembre 2022 all’8 gennaio 2023, è promossa dall’Archivio Andrea Di Marco in collaborazione con la Fondazione Sicilia e l’Accademia di Belle Arti di Palermo e realizzata con il contributo di Elenk’Art e Galleria Bonelli.

Il titolo della mostra, “Pegno”, si riferisce non soltanto al luogo che la ospita, ma richiama anche la semplicità elusiva di molti titoli scelti da Di Marco per le sue opere (“Apecasse”, “Radar”, “Seduto”, “Steso”, solo per citarne alcune esposte). La memoria dei poveri oggetti consegnati in pegno si intreccia così con quella delle semplici cose dipinte da Di Marco, in bilico tra attesa e abbandono: sedie, poltrone, biciclette, giocattoli, ombrelloni, abiti, stoffe, ma anche saracinesche abbassate su strade deserte e motoape cariche di cassette. Tutti soggetti ricorrenti nella sua produzione, in una sorta di inventario fisico e mentale che la resa della materia pittorica carica di una fissità straniata e malinconica. Il sentimento del vuoto, implicito in questi paesaggi urbani privati, all’improvviso e come per incantesimo, del loro abituale movimento, viene reiterato nell’esposizione dalla trama ritmica e appena variata delle scaffalature.

In mostra sono raccolti i lavori più emblematici dell’autore, quelli popolati da oggetti abbandonati o in disuso, ma anche quelli che meglio rappresentano quel particolare realismo che ha portato Andrea Di Marco a essere sempre più identificato con Palermo e la Sicilia, mettendone in evidenza lo sguardo beffardo e allo stesso tempo malinconico.

Con Alessandro Bazan, Francesco De Grandi e Fulvio Di Piazza, Andrea Di Marco aveva dato vita, tra la fine degli anni Novanta e gli inizi del 2000, alla Scuola di Palermo, sodalizio che si era affermato sulla scena artistica italiana “in un momento – spiega il curatore Sergio Troisi – in cui la fase del ritorno alla pittura declinava in favore di un diverso orizzonte di proposte concettuali e di nuovi media, individuando un punto di convergenza e irradiazione dei quattro percorsi nell’idea stessa della pittura, della sua materia e della sua stratificata memoria, come luogo di esplorazione del sentimento contemporaneo”. Il severo rigore formale di Di Marco, in particolare, dava a ogni suo soggetto un'evidente concretezza, gli restituiva profondità e luminosità, ponendosi in continuità con la storia dell'arte e dell'umanità.

Titolo Andrea Di Marco. Pegno
A cura di Sergio Troisi e Alessandro Pinto
In collaborazione con Fondazione Sicilia e Accademia di Belle Arti di Palermo
Con il sostegno di Galleria Giovanni Bonelli e Elenk'Art
Sede Palermo, Monte dei Pegni di Palazzo Branciforte, Largo Gae Aulenti, 2
Date 10 novembre 2022 – 8 gennaio 2023
Inaugurazione mercoledì 9 novembre, ore 18
Orari da giovedì a domenica, ore 9.30-14.30; 24 e 31 dicembre, ore 9.30-14.30.
Da lunedì a mercoledì e 25 dicembre chiuso.
Ingresso ingresso 7€ - ridotto 5€
Catalogo e progetto grafico di Tomo, con testi di Sergio Troisi e Alessandro Pinto
Info al pubblico Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 



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L’ARTE INQUIETA. L’urgenza della creazione Paesaggi interiori, mappe, volti: 140 opere da Paul Klee ad Anselm Kiefer 

Al centro di questa mostra, le opere rivelano l’urgenza creativa e la vitalità dei linguaggi dell’arte, necessari all’esplorazione degli infiniti volti ed espressioni dell’identità umana.

140 opere di grandi interpreti dell’arte del ‘900 e dell’oggi – da Paul Klee, Max Ernst, Alberto Giacometti, Jean Dubuffet a Hans Hartung e Anselm Kiefer, da Antonio LigabuePietro Ghizzardi, Cesare Zavattini a Maria Lai,  Alighiero Boetti, Emilio Isgrò, Carla Accardi – per indagare, come prima mai fatto, “l’Arte Inquieta”.

A Palazzo Magnani, dal 18 novembre 2022 al 12 marzo 2023, una sequenza mai vista di capolavori di grandi interpreti, anche dell’art brut internazionale e italiana. Accanto ad essi, per la prima volta, le creazioni inedite che provengono dagli Archivi del San Lazzaro, quello che fu il “Manicomio” di Reggio Emilia.

Al centro di questa mostra, le opere rivelano l’urgenza creativa e la vitalità dei linguaggi dell’arte, necessari all’esplorazione degli infiniti volti ed espressioni dell’identità umana.

Un’esposizione – questa curata da Giorgio Bedoni, Johann Feilacher e Claudio Spadoni - dove ad emergere è l’impulso creativo degli artisti, di cui sono frutto opere uniche che sorprendono, stupiscono e coinvolgono il visitatore.

In ciascuna delle stanze tematiche di questa grande mostra, autori e opere si confrontano per affinità di generi e di linguaggi in un percorso espositivo che indaga la bruciante vitalità dell’artista, la sua inquieta ricerca sull’identità, sospesa tra sguardi sulla storia e l’esplorazione di paesaggi interiori.

L’arte deve comunicare, lanciare dei messaggi, servendosi  di espressioni forti, barbare, violente, vandaliche. L’arte non è un’immagine piatta, levigata e lucida, che gli acidi emozionali non possano attaccare. Al contrario l’arte graffia e disturba, è stridore, imperfezione e invenzione. Per questo bisogna opporsi al razionalismo che vuole invadere dei territori che non gli appartengono, i territori  dell’immaginario”.

L’affermazione di Asger Jorn, riverbera quella di Paul Klee che così si esprime: “Più di uno non riconoscerà la verità del mio specchio. Deve comunque rendersi conto che io non sono qui per riflettere la superficie (questo può farlo la lastra fotografica) ma che devo penetrare all’interno. Io rifletto fino all’interno del cuore. Io scrivo parole sulla fronte e attorno agli  angoli della bocca. I miei volti umani sono più reali di quelli veri”.

L’arte è un sismografo sensibile ai confini incerti, ci interroga sulla natura dell’uomo, su sogni e desideri collettivi, è un viaggio che evidenzia quanto la vicenda umana possa essere stupefacente e imprevedibile, al di là di qualsiasi forma e confine tracciato. Come questa mostra autorevolmente conferma.

L’esposizione è il momento culminante di Identità Inquieta, il cartellone di eventi, mostre e performance promosso da diverse istituzioni culturali del territorio per raccogliere domande e mostrare visioni sulle infinite sfumature dell'identità.